quarto intermezzo: L’Amore nell’Inferno di Dante

Nell’Inferno, Dante, usa la parola amore diciotto volte, una volta il verbo amare, due volte parole derivate come amoroso od amato. Non utilizza mai, egli che era uno spirito amante per eccellenza, né nell’Inferno, né nella Commedia tutta, il verbo amare alla prima persona. Inutilmente cercherete nella Commedia parole come amo, amavo, amai, riferite a Dante come soggetto.

La parola amore è utilizzata con vari significati:

  • Amore è una delle definizioni di Dio, ed in particolare dello Spirito Santo (tre volte).
  • Amore è la legge naturale ispirataci da Dio stesso (cinque volte).
  • Amore è il sentimento che ci ispira alle cose grandi e belle (due volte).
  • Amore è la passione carnale che unisce e porta gli amanti al peccato (otto volte).

 

Dio è Amore

La teologia medioevale accetta la descrizione di Dio di Aristotele (Pensiero di Pensiero), ma la completa e perfeziona nella concezione Trinitaria.

Dio è Pensiero che pensa Se stesso, e, pensandosi, si dà la realtà da Lui voluta e piaciuta, guidato dall’Amore che intercorre tra Padre (Pensiero pensante, Capacità, Potenza di Dio) e Figlio (Pensiero Pensato, Logos, Sapienza di Dio). Lo Spirito Santo è l’Amore che guida Dio nella sua auto realizzazione e nella sua creazione. Esso è detto perciò anche Saggezza di Dio.

Per tre volte Dante usa il termine Amore in questa accezione.

Canto Primo, versi 37-40.

Temp’era dal principio del mattino,

e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle

ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;

 

Qui l’amor divino è Dio stesso o, più coerentemente con la teologia, lo Spirito Santo, nella Sua funzione di guida della Creazione. 

Canto Primo, versi 103-105.

Questi non ciberà terra né peltro,

ma sapienza, amore e virtute,

e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

 

Dante sta parlando del Veltro, la personalità mai identificata (le ultime, audaci, seppur partigiane interpretazioni vi vedrebbero Veltroni) che dovrà salvare l’Italia, scacciando nell’Inferno la Lupa, là onde invidia prima (il Demonio) dipartilla. Sapienza, amore e virtù possono essere interpretati come entità spirituali propriamente umane, ma anche come raffigurazioni della Trinità Divina: Sapienza è un termine con cui si indica il Logos, il Figlio; Virtute è la capacità originaria, il Padre; Amore è lo Spirito Santo: Dio stesso, quindi, nutre il Veltro delle sue Virtù. 

Canto Terzo, versi 4-6.

Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecemi la divina podestate,

la somma sapienza e ‘l primo amore.

 

Siamo alla terribile porta dell’Inferno, e Dante parla, senza ombra di dubbio, della Trinità: il primo amore è lo Spirito Santo, le altre due figure (podestate e sapienza) sono Padre e Figlio, come già visto.

 

 

Amore come legge naturale

Amore, oltre a Dio stesso, è la legge naturale posta da Dio come guida all’azione umana. La violazione di questa legge costituisce, per Dante, il peccato più grave.

Per ben cinque volte Dante usa il termine amore in tale senso. 

Canto Undicesimo, versi 55-63.

Questo modo di retro par ch’incida

pur lo vinco d’amor che fa natura;

onde nel cerchio secondo s’annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,

falsità, ladroneccio e simonia,

ruffian, baratti e simile lordura.

Per l’altro modo quell’amor s’oblia

che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,

di che la fede spezial si cria;

 

Dante sta parlando dell’ordinamento dell’Inferno, e pone in Malebolge (luogo è in Inferno detto Malebolge – tutto di pietra e di color ferrigno) coloro che hanno rotto il naturale vincolo d’amore che deve sussistere tra gli uomini, dandosi all’inganno ed alla malizia; più giù stanno i traditori, cioè quelli che hanno rotto il vincolo d’amore ancor più forte che deve sussistere tra coloro che sono legati da legami speciali di fiducia.

Canto Dodicesimo, versi 40-43.

da tutte parti l’alta valle feda

tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo

sentisse amor, per lo qual è chi creda

più volte il mondo in caòsso converso;

 

Qui Dante parla del terremoto che sconvolse, nel momento della morte di Cristo, l’alta valle feda: la profonda e sozza valle dell’Inferno.  L’amore di cui qui si parla è una reminescenza di una dottrina di Empedocle, tramandataci da Aristotele: tutte le cose si sarebbero formate per la discordia sorta tra i quattro elementi fondamentali, per cui, tornando la concordia (amor) il mondo si sarebbe convertito (converso) in un nuovo caos. Non si tratta, chiaramente, se non di una citazione degli antichi, ma anche in questo caso amore sta per una legge naturale, ordinatrice del cosmo.

Canto Ventiseiesimo, versi 94-96.

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ‘l debito amore

lo qual dovea Penelopé far lieta,

il debito amore è l’amore coniugale, debito perché dovuto per legge divina.

 

Canto Trentesimo, versi 37-39.

Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica

di Mirra scellerata, che divenne

al padre fuor del dritto amore amica.

Il dritto amore è l’amore verso i genitori, anch’esso stabilito dalla legge divina.

 

Nella concezione dantesca, assolutamente, in questo, cristiana la legge divina è, prima di tutto, legge di amore, e il peccato è, parallelamente, colpa contro l’amore.

 

Amore come sentimento guida al bello ed al giusto

Due volte Dante usa la parola amore in questo senso:

Canto Primo, versi 82-84.

«O de li altri poeti onore e lume

vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore

che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Dante saluta Virgilio e lo invoca portando a proprio merito il lungo studio (la ricerca) e il grande amore che lo portarono a cercare ed a leggere l’Eneide. Allora non era facile trovare e procurarsi un libro, e Dante ricorda, evidentemente, la fatica che dovette fare per trovare l’opera del Poeta.

 

Canto Secondo, versi 70-72.

I’ son Beatrice che ti faccio andare;

vegno del loco ove tornar disio;

amor mi mosse, che mi fa parlare.

Beatrice rivela a Virgilio la sua identità, ed il motivo per il quale lo richiede come guida di Dante, perso nella valle del peccato e dell’ignavia. Amore qui sta per Carità, ma anche per il giusto sentimento che l’amore di Dante ha suscitato in lei.

 

Amore come passione

L’amore come passione carnale è tutto nel Canto Quinto, quello di Paolo e Francesca. Per ben otto volte appare qui la parola amore, una volta  ciascuna amare, amorosa, amato.

La colpa che Dante riconosce al peccato carnale non è l’Amore, che sempre e comunque viene da Dio (dal Demonio viene l’Invidia, l’Odio, mai l’Amore), ma il cattivo uso di questo, quasi la violazione della sacralità di questo sentimento, ovvero di questa determinazione sostanziale di Dio.

Dante riconosce in questo Canto il suo peccato, se non il più grave, il più frequente. Dapprima si sofferma sulle storie degli eroi e dei cavalieri, tanto amate nel medioevo e da lui stesso, e ne resta tanto turbato: pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

Poi fa ammenda della sua stessa poesia: nella rievocazione del famoso al cor gentil ripara sempre amore del Guinizzelli, Dante riconosce il dolce stil novo, del quale egli fu provetto interprete, e che ora riconosce origine di tanto male: quand’io intesi qell’anime offense, chinai il viso, e tanto il tenni basso.

Malgrado tutto, però, Dante riconosce nell’Amore l’origine divina, e la evidenzia in questi due fatti:

 

  • i peccator carnali stanno nel primo girone, quello del peccato meno grave, superato per gravità dalla stessa golosità, posta subito sotto;
  • in tutto l’Inferno il peccato per il quale si è condannati è fonte di maggior dolore, se non di pentimento: i dannati maledicono il loro peccato e soffrono per esso. L’amore, invece, appare qui fonte di consolazione dei tormentati, in particolare in Francesca: questi, che mai da me non fia diviso,... Anche nella pena, Francesca trova consolazione nello stare stretta a Paolo e si augura di non essere mai tolta da tale abbraccio. Mai, nell’Inferno, il peccato può essere fonte di consolazione, se non nel caso dell’Amore, che, provenendo direttamente da Dio, anzi, essendo Dio stesso, lenisce un poco il dolore della pena.

Il fatto che i due amanti rimangano insieme, travolti dal turbine della tempesta infernale, non appare come maggior punizione, ma come una concessione benevola al sentimento che in vita li ha uniti.

 

Canto 5, versi 61-69

L’altra è colei che s’ancise amorosa,

e ruppe fede al cener di Sicheo;

poi è Cleopatràs lussuriosa.

Elena vedi, per cui tanto reo

tempo si volse, e vedi ‘l grande Achille,

che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille

ombre mostrommi e nominommi a dito,

ch’amor di nostra vita dipartille.

Dante rammemora qui le storie tanto care e tanto amate, narrate da Virgilio, Omero e da trovieri e trovatori, trovandovi da un canto motivo di condanna, ma dall’altro ancora un chiaro motivo di riscatto: Didone si uccise, e perciò dovrebbe trovarsi nel girone più basso dei suicidi, i violenti contro di sé. Ma il fatto che si uccise amorosa, cioè innamorata, rende meno grave la sua colpa, ed ella espia la sua condanna tra gli amanti, per il peccato meno grave (questo è un evidente paradosso: se il suo amore la condanna comunque, ed è quindi colpevole, dovrebbe aggravare il suo stato e non fungere da attenuante. Ma la pietà divina ha sì gran braccia…)

Dante, normalmente, non prova pietà per i peccatori: la giustizia divina non giustifica alcuna pietà. Qui invece, esplicitamente e senza necessità o compiacenza Dante è turbato: pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

Pure nel Canto successivo Dante dichiara di essere impietosito (Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar mi’nvita), ma la cosa appare più un mezzo per invogliare la risposta alle domande che urgono sulla bocca di Dante, (ma dimmi, se tu sai..) che autentica pietà.

 

Canto 5, versi 76-78

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno

più presso a noi; e tu allor li priega

per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Anche in questo passo, viene sottolineata la natura assolutamente diversa di amore riguardo agli altri peccati. Virgilio suggerisce a Dante di pregare i due amanti affinchè si avvicinino, in nome del loro amore che ancora i mena, cioè li trascina nella pena. Mai un tale suggerimento sarebbe stato possibile per un altro peccato, né alcun peccatore avrebbe accondisceso a chi lo avesse invocato in nome della colpa per la quale è dannato.

 

Canto 5, versi 100-108

 Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense».

Queste parole da lor ci fuor porte.

Troppo famosi questi versi per tentarne un commento. E’ qui che Dante si richiama esplicitamente al dolce stil novo ed a Guido Guinizzelli:

al cor gentil repara sempre Amore

com’a la selva augello in la verdura;

né fe’ Amore anzi che gentil core,

né gentil core anzi ch’Amor, Natura.

 

Ma per quanto gentile, il cuore dei due li ha portati all’Inferno. In questo il turbamento e l’autocritica di Dante. 

Canto 5, versi 118-126

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,

a che e come concedette amore

che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,

dirò come colui che piange e dice.

 

Siamo al preludio della celeberrima scena del bacio (quando leggemmo il disiato riso – esser baciato da cotanto amante – questi, che mai da me non fia diviso – la bocca mi baciò, tutto tremante). Ma superando il pathos dei versi e della situazione, ancora una volta Dante sottolinea la colpevolezza della poesia amorosa del tempo, facendo chiaramente ammenda di avervi così validamente partecipato: galeotto fu il libro e chi lo scrisse.

All’inizio dell’Inferno Dante abbandona in tal modo gran parte della sua giovinezza, la poesia amorosa, per lo meno nella sua componente e nei suoi sottintesi carnali, ma non l’Amore per Beatrice, amore salvifico che egli trasfigura nella tensione per l’assoluto, il sacro, l’infinito: l’Amore, dono divino, platonicamente inteso come scala verso l’Empireo.

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