quinto intermezzo: O bella età de l’oro!

Nel 1573 Torquato Tasso pubblica l’Aminta, opera conformata al genere letterario del dramma pastorale, che già dal Castiglione e dal Tansillo si era visto promosso a metà del secolo e che godrà di grande favore tra il pubblico dell’epoca.

Aminta è frutto dell’amena vita di corte che il Tasso trascorre, ancora senza preoccupazioni, presso gli Estensi di Ferrara, tra amori e lascivie (forse solo sognate?, ovvero quanto virtuali?). E di spirito godereccio e spensierato è ricolmo il libro, intriso in ogni sua pagina di sensualità, né tuttavia mai sboccato o volgare.

Tasso concilia queste pagine a principi morali piuttosto rilassati, se non totalmente libertini, ma giungerà a sconfessarle, più avanti negli anni e nel mezzo della Gerusalemme, in quel giardino di Armida ove un pappagallo ripete giusto i versi da lui scritti nell’Aminta, ma solo per vederli ora fieramente condannati dai due cavalieri cristiani, Guelfo ed Ubaldo, mandati a salvare Rinaldo dalle braccia e dal grembo della maliarda strega.

E’ nel celebre Coro O bella età de l’oro che Tasso investe questi princìpi gaudenti, vagheggiando una lontana era nella quale ogni libito si desse licito, ed in particolare ogni giovane donna fiorisse disposta alle altrui (o, meglio, a quelle del Tasso) voglie licenziose.

Nel 1590, Battista Guarini pubblica un altro dramma pastorale, Il pastor fido, ed in esso compare un Coro palesemente, quanto seriamente parodiato dall’Aminta. Il percorso del Coro tassiano viene infatti abilmente ribattuto da passi morigerati, che ne convertono i concetti dissoluti ad atmosfere or ora riformate.

L’invenzione del Guarini, al di là degli intenti morali ed etici, si segnala in misura dell’abilità compositiva e dell’arguzia con la quale egli rovescia il punto di vista del Tasso, pur rispettando formalmente l’intera composizione originaria, addirittura conservando intatte non solo le rime  ma addirittura tutte le parole finali di ogni singolo verso dell’opera tassiana.

Confrontiamo, appaiando i versi, i due Cori, e commentandoli brevemente.

 

Tasso, Aminta, Atto I, scena II

 

Guarini, Pastor Fido, Atto IV, scena IX

 

O bella età de l’oro,

non già perché di latte

sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco;

non perché i frutti loro

dier da l’aratro intatte

le terre, e gli angui errar senz’ira o tosco;

non perché nuvol fosco

non spiegò allor suo velo,

ma in primavera eterna,

ch’ora s’accende e verna,

rise di luce e di sereno il cielo;

né portò peregrino

o guerra o merce agli altrui lidi il pino;

Oh bella età de l’oro,

quand’era cibo il latte

del pargoletto mondo e culla il bosco;

e i cari parti loro

godean le greggi intatte,

né temea il mondo ancor ferro né tosco!

Pensier torbido e fosco

allor non facea velo

al sol di luce eterna.

Or la ragion, che verna

tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo,

ond’è che il peregrino

va l’altrui terra, e ‘l mar turbando il pino.

 

Le caratteristiche della mitica età dell’oro sono dunque, per il Tasso, squisitamente materiali: latte e miele a fiotti su terre feconde quanto vergini di umano sudore, animali in mansueta goduria di perenne  primavera, sconosciuta la navigazione commerciale e vieppiù bellica.

Per il Guarini, tutto ciò si conferma irraggiato da una luce tersa di pacifica onestà, ma soprattutto spiritualmente nobilitato da una ragione non ancora intorbidita dalla caligine della sensualità.

 

ma sol perché quel vano

nome senza soggetto,

quell’idolo d’errori, idol d’inganno,

quel che dal volgo insano

onor poscia fu detto,

che di nostra natura ‘l feo tiranno,

non mischiava il suo affanno

fra le liete dolcezze

de l’amoroso gregge;

né fu sua dura legge

nota a quell’alme in libertate avvezze,

ma legge aurea e felice

che natura scolpì: “S’ei piace, ei lice”.

Quel suon fastoso e vano,

quell’inutil soggetto

di lusinghe, di titoli e d’inganno,

ch’”onor” dal volgo insano

indegnamente è detto,

non era ancor degli animi tiranno.

Ma sostener affanno

per le vere dolcezze;

tra i boschi e tra le gregge

la fede aver per legge,

fu di quell’alme, al ben oprar avvezze,

cura d’onor felice,

cui dettava Onestà: “Piaccia, se lice”.

 

Alle descritte meraviglie si aggiungeva, nella fantasia del Tasso, l’assoluta e originaria assenza (ovvero ancora preadamitica inesistenza) di ogni senso del pudore (onore), così che il principio delle genti felici era: è lecito far tutto ciò che piace.

Con sottile abilità Guarini inverte il concetto: non si dava allora necessario alcun senso artificioso dell’onore, poiché il senso naturale (Onestà) spingeva le beate genti di quel pargoletto mondo a goder solo di ciò che era lecito.

 

Allor tra fiori e linfe

traen dolci carole

gli Amoretti senz’archi e senza faci;

sedean pastori e ninfe

meschiando a le parole

vezzi e susurri, ed ai susurri i baci

strettamente tenaci;

la verginella ignude

scopria sue fresche rose,

ch’or tien nel velo ascose,

e le poma del seno acerbe e crude;

e spesso in fonte o in lago

scherzar si vide con l’amata il vago.

Allor tra prati e linfe

gli scherzi, e le carole,

di legittimo amor furon le faci.

Avean pastori e ninfe

il cor ne le parole;

dava lor Imeneo le gioie e i baci

più dolci e più tenaci.

Un sol godeva ignude

d’Amor le vive rose;

furtivo amante ascose

le trovò sempre, ed aspre voglie e crude,

o in antro o in selva o in lago,

ed era un nome sol marito e vago.

 

La fantasia erotica aveva evocato al Tasso lascivi intrecci di pastori e pastorelle che, senza freni e discriminazioni, amoreggiavano serenamente, bagnandosi ignudi nelle acque di fonti o laghetti.

Il Guarini vede a sua volta una scena analoga, dove ad aprire i piaceri amorosi è però solo Imeneo, cioè il matrimonio, e in cui unicamente al marito, che è anche il solo amante (vago), si concede la vista delle bellezze altrimenti ascose. In vero, la caratte-ristica dell’età stava proprio in questa coincidenza tra amore sensuale ed amore maritale.

 

Tu prima, Onor, velasti

la fonte dei diletti,

negando l’onde a l’amorosa sete;

tu a’ begli occhi insegnasti

di starne in sé ristretti,

e tener lor bellezze altrui secrete;

tu raccogliesti in rete

le chiome a l’aura sparte;

tu i dolci atti lascivi

festi ritrosi e schivi;

ai detti il fren ponesti, ai passi l’arte;

opra è tua sola, o Onore,

che furto sia quel che fu don d’Amore.

Secol rio, che velasti

co’ tuoi sozzi diletti

il bel de l’alma, ed a nudrir la sete

dei desiri insegnasti

co’ sembianti ristretti,

sfrenando poi l’impurità segrete!

Così, qual tesa rete

tra fiori e fronde sparte,

celi pensier lascivi

con atti santi e schivi;

bontà stimi il parer, la vita un’arte;

né curi, e parti onore,

che furto sia, pur che s’asconda, amore.

 

L’Onore, nei versi del Tasso, è colpevole di aver indotto le belle a nascondere le loro grazie, facendo sì che solo furtivamente, quasi fosse rapina, si possa avere ciò che Amore aveva donato agli uomini.

Dal canto suo il Guarini attribuisce al secolo corrotto, cioè alla nostra epoca, l’aver ipocritamente celato quello che nascostamente e sozzamente si gode; e per giunta di non curare che si possa avere Amore con gli inganni, purché tutto rimanga sotterfugio. Come si vede, anche qui l’orizzonte morale è assolutamente difforme.

 

E son tuoi fatti egregi

le pene e i pianti nostri.

Ma tu, d’Amore e di Natura donno,

tu domator de’ Regi,

che fai tra questi chiostri,

che la grandezza tua capir non ponno?

Vattene, e turba il sonno

agl’illustri e potenti:

noi qui, negletta e bassa

turba, senza te lassa

viver ne l’uso de l’antiche genti.

 

Ma tu, deh! spirti egregi

forma ne’ petti nostri,

verace Onor, de le grand’alme donno.

O regnator de’ regi,

deh! torna in questi chiostri,

che senza te beati esser non ponno.

Dèstin dal mortal sonno

tuoi stimoli potenti

chi per indegna e bassa

voglia, seguir te lassa,

e lassa il pregio de’ l’antiche genti.

 

 

L’Onore, padrone (donno) ormai dell’Amore e della Natura, reputa sua gloria le pene che ci arreca, talché il Tasso lo invita ad andarsene e ad angustiare quegli illustri e quei Regi a lui tanto più sottomessi quanto più potenti. Il poeta, d’altra parte, volentieri si mischia ad una negletta e bassa turba, pur di essere lasciato in pace con le sue amorose a viver ne l’uso de l’antiche genti, ovvero fornicando candidamente.

Al contrario il Guarini invita il verace Onore, signore delle anime grandi, a venire tra noi per destare dal sonno delle indegnità chi ancora vi si crogiola, richiamandolo alla nobiltà perduta.

 

Amiam, ché non ha tregua

con gli anni umana vita, e si dilegua.

Amiam, ché ‘l Sol si muore e poi rinasce:

a noi sua breve luce

s’asconde, e ‘l sonno eterna notte adduce.

 

Speriam, ché ‘l mal fa tregua

talor, se speme in noi non si dilegua.

Speriam, ché ‘l sol cadente anco rinasce,

e ‘l ciel, quando men luce,

l’aspettato seren spesso n’adduce.

 

Trionfa alla fine l’edonismo del Tasso in un accorato invito all’Amore, consueto e classico appello, qui decisamente catulliano, a disperdere nel piacere l’ineluttabile fugacità del vivere e l’incombente ombra d’un sonno eterno.

Sarà tale sentimento dell’esistenza, in apparenza gaudente, in realtà disperato, che porterà il Tasso alla pazzia, trascorsa la giovinezza e rivelatisi vani i sogni ed i desideri da questa suscitati.

Pacatamente fiduciosa è invece la chiusa del Guarini, che coglie nel risorgente sole l’auspicio di un ritorno, anche per noi, del sereno tante volte perduto.

Amiam è il grido del Tasso, per sgominare la disperazione; Speriam quello del Guarini, per tornare ad amare ed a sognare.

(indietro)                                                                                                                                        (segue)