Il Bene, il Fine e la Felicità.
All’inizio dell’ Etica Nicomachea, Aristotele si chiede cosa sia il Bene.
Dopo aver affermato che il Bene coincide con il Fine, cioè con quello verso cui ogni cosa ed ogni uomo tende, egli, attenendosi all’opinione dei più, afferma essere incontestabile che il fine dell’uomo è la Felicità, e che quindi questa è il bene supremo.
Questa conclusione lo spinge ad affermare anche che scopo della Politica è la Felicità dei cittadini.
Comunemente si ammette che ogni arte esercitata con metodo, e, parimenti, ogni azione compiuta in base ad una scelta, mirino ad un bene: perciò, a ragione, si è affermato che il bene è “ciò a cui ogni cosa tende”.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1094 a 1-3.
Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta aspirano ad un bene, diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò a cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione. Orbene, quanto al nome la maggioranza degli uomini è pressoché d’accordo: sia la massa sia le persone distinte lo chiamano “felicità”, e ritengono che “vivere bene” e “riuscire” esprimano la stessa cosa che “essere felici”.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 4, 1095 a 15-20.
Si ammetterà che [la conoscenza del bene] appartiene alla scienza più importante, cioè quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti … la strategia, l’economia, la retorica sono subordinate ad essa. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1094 a – 1094 b.
Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, una affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1097 b 22-24.
Accettata questa conclusione, però, il Filosofo non si accontenta, e scopre un’altra definizione di Bene, che in certo qual modo sembra contrastare con la prima: il Bene, in quanto Fine, è la realizzazione dell’essenza propria di ciascuno: per l’uomo in generale esso è quindi la realizzazione di quanto di più perfetto vi è nell’uomo: la ragione.
Più avanti affermerà pure che il Bene nell’uomo è agire secondo virtù.
Per conciliare le tre cose, Aristotele afferma fin da subito che agire secondo virtù significa agire secondo ragione, e quindi coincide con il realizzare l’essenza razionale dell’uomo, e che l’uomo che agisce secondo ragione e virtù è anche il più felice.
Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione…se poniamo come funzione dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo eccellente di attuarle bene e perfettamente…il bene dell’uomo consiste in una attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1098 a 7-18.
Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dalla nostra definizione di felicità: si è detto infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 9, 1099 b 25-28.
Aristotele introduce poi un altro concetto, straordinario, che anticipa e rivela dove vuole arrivare: la Felicità è qualche cosa di divino, che merita lode ed onore. Ricordiamo che per Aristotele “la natura di Dio è piacere”: la Felicità ci viene da Dio e la si raggiunge con la stessa attività di Dio: la contemplazione. Ma per ora, il filosofo, non anticipa questa conclusione.
Se dunque c’è qualche altra cosa che sia dono degli dei agli uomini, è ragionevole pensare che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che esso è il più grande dei beni umani.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1099 b 11-14.
…per noi è chiaro da quanto si è detto che la felicità rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così anche per il fatto che essa è un principio: è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e il principio e la causa dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna d’onore e divina.
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1102 a, 1-4.
Ma questa equazione non lascia soddisfatto uno spirito critico, che non si accontenti di una apparente conciliazione tra concetti diversi.
Se infatti lo scopo ultimo è la felicità, l’agire secondo ragione appare più lo strumento per il conseguimento della stessa: non vi è coincidenza tra le due cose. Se la virtù è solo lo strumento per il raggiungimento della felicità, solo questa è il Bene, e la prima lo è solo in via subordinata. Se qualcuno raggiungesse la propria felicità agendo dissennatamente e dissolutamente, nessuno potrebbe contestargli alcunché: quello sarebbe per lui il Sommo Bene.
Kant insorgerà fieramente contro questo modo di vedere, e contrasterà in modo netto che il fine dell’imperativo morale possa essere la felicità.
Precisamente il contrario del principio della moralità ha luogo se vien fatto motivo determinante della volontà il principio della propria felicità;…
Il principio della felicità può bensì fornire massime, ma non mai tali da servire come leggi della volontà, se anche si facesse oggetto la felicità universale
I.Kant, Critica della ragion pratica, I, § 7, Scolio II, 61-64.
Il modo di filosofare di Aristotele.
Ma Aristotele è un pensatore attento e meticoloso, e difficilmente si lascia cogliere così flagrantemente in errore.
Egli si limita, per ora, a costruire quegli elementi che gli permetteranno in seguito di uscire dalle secche logiche dell’edonismo, per giungere, proprio alla chiusura del libro, a dare la risposta risolutiva, che rimarrà però ai più incompresa.
Il modo di filosofare di Aristotele è caratteristico, e nell’Etica questa particolarità giunge al massimo grado: affrontando un problema, egli difficilmente ne dà la risposta immediatamente. Dapprima esamina tutte le tesi e tutte le alternative, tra le quali non tralascia mai l’opinione dei più, cui assegna sempre un particolare posto d’onore: egli pensa, infatti, che tutti concorriamo alla ricerca della verità, ciascuno con un suo piccolo contributo, e che l’opinione dei più, anche se difficilmente sarà quella vera, altrettanto difficilmente non nasconderà in sé qualcosa del vero.
…infatti, se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole…
Ora è giusto essere grati non solo a coloro dei quali condividiamo le opinioni, ma anche a coloro che hanno espresso opinioni piuttosto superficiali; anche costoro, infatti, hanno dato un certo contributo alla verità, in quanto hanno contribuito a formare il nostro abito speculativo.
Aristotele, Metafisica, II, 1, 993 b 1-4; 11-14.
Ecco un giudizio di Hegel su tale modo di filosofare:
Dobbiamo parlare ora …della maniera aristotelica di filosofare. Questa maniera consiste nel fatto che per Aristotele è essenziale pervenire sempre a concetti determinati, cogliere l’essenza dei singoli aspetti dello Spirito e della Natura in una modalità semplice, cioè nella forma concettuale. Da qui deriva una ricchezza e completezza di aspetti, la quale attesta che Aristotele ha davanti a sé l’intera intuizione e non trascura nessun particolare, per quanto banale esso possa apparire.
G.F.Hegel, Aristotele, II, 3, Rusconi, Milano 1999, p. 55.
Solo dopo aver dibattuto ogni tesi ed ogni opinione, aver mostrato il giusto e lo sbagliato di ogni posizione, egli dà la sua risposta, o talora, addirittura, si limita a prefigurarla. Questo modo di filosofare, che fa la grandezza di Aristotele, induce però molti in errore: infatti si prende per opinione di Aristotele quella che non è che un semplice argomentare od un riferire critico di opinioni altrui, senza cogliere l’intrinseca unità di pensiero che si evidenzia solo nella soluzione finale. Aristotele scrive come un romanziere di racconti polizieschi: non bisogna credere che la soluzione del giallo stia nelle prime pagine: la soluzione viene costruita, capitolo dopo capitolo, aggiungendo elementi che risulteranno preziosi solo al momento della chiarificazione finale.
L’Eudemonia.
I mattoni che Aristotele si costruisce nel corso dell’opera, e che utilizzerà nel capitolo finale, sono:
- egli attribuisce all’opinione dei più che la Felicità sia il sommo bene: provvisoriamente egli accetta questa opinione, ma non dobbiamo dimenticare che l’opinione della maggioranza, secondo Aristotele, difficilmente rivela l’intera verità;
- il termine che egli usa per Felicità (eudaimonia), non significa esattamente quello che noi intendiamo, e che Kant tanto aborrisce: un sentimento che accompagna qualche cosa di piacevole. Il termine eudemonia in greco significa piuttosto vita felice, vita fortunata, vita protetta da un buon demone;
- Aristotele accentua e chiarisce questo significato quando afferma che Felicità (eudaimonia) non è un accidente, una passività, come può essere un sentimento, uno stato d’animo, ma è una Attività.
Riportiamo un brano di William D. Ross sul significato del termine eudemonia per Aristotele:
Aristotele accetta dai ”più” la concezione secondo cui il fine è l’eudaimonia. Il corrispondente aggettivo significava originariamente sorvegliato da un buon genio, ma nell’uso greco ordinario la parola significa buona fortuna, spesso riferita alla prosperità esterna. La convenzionale traduzione con felicità non si addice all’Etica, poiché, mentre felicità significa uno stato d’animo differente da piacere solo perché fa pensare alla permanenza, alla profondità ed alla serenità, Aristotele insiste che l’eudaimonia è un genere di attività; che non è affatto un genere di piacere, quantunque il piacere naturalmente l’accompagni.
W.D.Ross, Aristotele, Laterza, Bari 1946, pp.283-284.
Aristotele analizza così la natura di attività della eudemonia (qui tradotta con felicità):
Abbiamo dunque detto che la felicità non è una disposizione… Per conseguenza… è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività… e tra quelle attività che meritano di essere scelte di per se stesse e non per altro: infatti la felicità non ha bisogno di nient’altro, cioè basta a se stessa.
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 6, 1176 a – 1176 b.
In tal modo Aristotele risponde preventivamente a Kant, che, definendo la felicità un sentimento suscitato dal desiderio appagato, ed in tal modo confondendola con il piacere, può escluderla dal dominio del Bene:
Essere felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale finito…
…quello, cioè, in cui ciascuno deve riporre la sua felicità, dipende dal suo sentimento particolare di piacere o dispiacere, e, anche in un solo e medesimo soggetto, dalla diversità dei bisogni che seguono le variazioni di tale sentimento…
I.Kant, Critica della ragion pratica, I, § 3, Scolio II, 45-46.
Ma nulla di ciò vi è in Aristotele: felicità non è sentimento suscitato dal piacere, ma attività secondo ragione, corrispondente alla miglior realizzazione della natura umana, e quindi con un contenuto oggettivo indipendente da gusti o tendenze particolari.
Ecco allora che diviene possibile il capolavoro logico aristotelico di affermare che la Felicità non è il risultato, il premio della vita secondo virtù, della vita secondo ragione e, per finire, della vita contemplativa, massima realizzazione dello Spirito umano: Felicità è proprio quella vita, secondo virtù, secondo ragione e dedicata alla contemplazione. Le due cose non sono l’una la conseguenza dell’altra ma sono esattamente la stessa cosa.
I passaggi logici seguono due vie che prima divergono ed alfine convergono:
il bene è il fine
il fine è realizzare la propria essenza (la ragione) il fine è la Felicità (vita felice)
essenza è vita secondo virtù Felicità (vita felice) è azione
suprema virtù è la vita contemplativa Felicità (vita felice) è vita virtuosa
Felicità è vita contemplativa.
Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore. Che sia l’intelletto o qualche altra cosa ciò che si ritiene che per natura governi e guidi e abbia nozione delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa più divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta.. S’è già detto, poi, che questa attività è attività contemplativa… Questa attività, infatti, è la più alta, giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più elevati; inoltre, è la cosa più continua delle nostre attività: infatti, possiamo contemplare in maniera più continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa.
Etica Nicomachea, X, 7, 1177 a 12-23.
Politica ed Etica
A questo punto Aristotele deve chiudere un altro argomento, lasciato aperto nel primo capitolo: quello della Politica. Infatti egli aveva affermato che: “il suo fine abbraccerà i fini delle altre [scienze], cosicché sarà questo il bene per l’uomo”.
Qual è quindi il fine della Politica, questo fine così importante da essere considerato ipso facto “il bene per l’uomo”?
Il fine della Politica è, secondo Aristotele, la Felicità dei cittadini. Ma la Felicità è attività conforme a Virtù: quindi la Politica deve, attraverso le leggi, rendere migliori i cittadini, inducendoli ad agire secondo virtù e ragione:
Se dunque, come s’è detto, l’uomo avviato a diventare buono deve essere allevato ed abituato bene, e deve poi vivere in occupazioni virtuose e non compiere cattive azioni né involontariamente, né volontariamente, questo si verificherà per coloro che vivono secondo una certa intelligenza e un retto ordinamento: orbene, l’autorità paterna non ha né la forza né la capacità coercitiva, né quindi, in genere, ce l’ha l’autorità di un uomo solo, che non sia re, o qualcosa del genere: la legge, invece, ha potenza coercitiva, essendo una regola fondata su una certa saggezza e sull’intelletto. E noi odiamo gli uomini che si impongono ai nostri impulsi, anche se lo fanno a buon diritto, mentre la legge non è odiosa se ordina ciò che è moralmente conveniente.
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 9, 1180 a 15-25.
Il Piacere
Parallelamente ed internamente al tema della Felicità, Aristotele affronta anche quello del Piacere. Il problema si pone in questi termini: è abbastanza facile sostenere che l’uomo cerca il Piacere, e che quindi questo sia il fine ultimo di ogni azione umana: ogni altro fine viene desiderato solo in vista del piacere che ne trarremo. Ma se le cose stanno così, e se, come sostenuto, il bene è il fine di ogni azione umana, dobbiamo concludere che il Piacere è il sommo bene.
Ora, non vi è cosa maggiormente contraria al pensiero di Aristotele di questa.
Gli uomini della massa, i più rozzi, identificano [il fine della vita] con il piacere e per questo amano la vita di godimento…Orbene, gli uomini della massa si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie…
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 5, 1095 b 16-21.
La soluzione di Aristotele è questa: indubbiamente il Piacere è, di per sé, un bene, poiché accompagna sempre la Felicità, ma non è il Bene, in quanto esistono vari tipi di piacere, alcuni buoni, altri meno ed altri cattivi.
Questo perché il piacere è il sentimento che proviamo quando possiamo svolgere liberamente una certa attività: questa è il vero fine che ci poniamo, ed il piacere è buono o cattivo in virtù della bontà o della cattiveria dell’azione che compiamo: azioni non conformi a virtù e ragione danno ugualmente piacere, ma questo è cattivo come le attività che lo generano.
Il bene non coincide con il piacere: il piacere infatti è la sensazione che si prova quando si può agire liberamente: esso accompagna quindi necessariamente la Felicità, che è attività libera, ma non le si identifica.
Il tema sarà ripreso da S.Tommaso, che chiarirà meglio, dando del piacere una definizione sottilmente psicologica: il piacere è la sensazione che si prova quando si raggiunge il proprio fine, per l’appagamento, o meglio, il quietarsi del desiderio nel fine raggiunto. Proprio per questo non si identifica con il fine, che è normalmente diverso, anche se si accompagna con esso: pertanto il piacere non è il bene, che è invece il fine perseguito.
Ad primum ergo dicendum quod eiusdem rationis est quod appetatur bonum, et quod appetatur delectatio, quae nihil est aliud quam quietatio appetitus in bono…
Ad tertium dicendum quod eo modo omnes appetunt delectationem, sicut et appetunt bonum: et tamen delectationem appetunt ratione boni, et non e converso…
(Per prima cosa: è la stessa la ragione per la quale è desiderato il bene ed è desiderato il piacere, il quale non è altro che il quietarsi del desiderio nel bene raggiunto…
Per terzo: tutti desiderano il godimento allo stesso modo che desiderano il bene: tuttavia desiderano il godimento a motivo del bene, e non viceversa…)
Tommaso d’Aquino, La Somma teologica, I-II, q. 2, aa 6.
A parziale confutazione di quanto sostenuto da Tommaso, Rudolf Steiner scrive:
Il realizzarsi dell’aspirazione genera piacere nell’individuo che vi tendeva; la mancata realizzazione, dispiacere….Da questo non si può concludere: piacere è soddisfacimento di un desiderio, dispiacere mancato soddisfacimento. La malattia è dispiacere non preceduto da alcun desiderio…Se qualcuno eredita da un parente ricco, di cui ignorava l’esistenza, il fatto gli dà piacere senza che vi sia stato un desiderio precedente.
R.Steiner, La filosofia della libertà, Editrice antroposofica, Milano 200310, pp.163,165.
A questa considerazione obietto che il piacere per l’eredità deve necessariamente essere preceduto dal desiderio di ricchezza e denaro: non avrei alcun piacere se ereditassi cose mai desiderate, come un mucchio di cenere o di stracci vecchi.
Analogamente avviene per la malattia, che mi priva di cose desiderate: muovermi, viaggiare, ecc.