Il mondo come volontà e rappresentazione è l’opera principale di Arthur Schopenhauer, l’ultimo dei grandi filosofi idealisti dell’’800. In quest’opera il filosofo tedesco dà una visione dell’idealismo assolutamente antitetica a quella di Hegel, da lui odiato e vituperato oltre la decenza.
Ecco come si esprime nella sua opera a proposito del grande filosofo, idealista come lui:
E’ impossibile che una generazione, la quale ha tanto forte strombazzato un Hegel, questo Calibano intellettuale, come il più grande dei filosofi, da risuonarne l’Europa intera, possa far venir gola del proprio plauso a chi ha visto un tale spettacolo. (Proemio alla II° edizione.)
L’impressione che ho avuto leggendo l’opera è che Schopenhauer voglia dare veste filosofica, utilizzando gli strumenti della cultura occidentale, alle dottrine indiane dei Veda, cui egli esplicitamente si richiama, da lui già in precedenza conosciute ed evidentemente accettate.
Questo significa che egli non giunge alle sue conclusioni attraverso il ragionamento filosofico, ma piega il ragionamento filosofico alle conclusioni cui era già pervenuto simpateticamente accostandosi ai libri della saggezza sanscrita.
Ciò spiega, ma non giustifica, alcune evidenti forzature del ragionamento cui egli ricorre, per giungere a dimostrare quel che egli dava già per vero senza alcuna dimostrazione.
Aspetti positivi dell’opera
Poiché la mia esposizione sarà complessivamente critica, vorrei per prima cosa sottolineare quelli che sono certamente gli aspetti più positivi dell’Autore.
- Stile chiaro e preciso: Shopenhauer scrive meravigliosamente bene; i suoi ragionamenti sono chiari e comprensibili ad un normale lettore, diversamente da altri filosofi per i quali l’incomprensibilità è parte integrante della loro filosofia (tra i quali Kant, ma, sopra ogni altro, Hegel, da me amato, più per quello che fa intuire che per quello che fa comprendere, per lo meno nelle parti esoteriche della sua opera). Questa chiarezza e comprensibilità cela però talvolta una certa superficialità del ragionamento: la difficoltà dello stile, d’altra parte, risulta obbligata per chi deve esprimere concetti e ragioni di grande difficoltà e complessità.
- Teoria dell’arte affascinante e convincente: l’Autore esprime una sua teoria dell’Arte molto bella e convincente, che illustrerò più avanti nel capitolo.
- Teoria sul fine della pena sulla quale concordo pienamente, come già abbiamo visto (cfr. § 2.2.3).
- Chiara visione dell’idealismo kantiano: Schopenhauer dichiara esplicitamente che Kant è un idealista, anche se si dichiara anti-idealista. Anche su questo concordo pienamente, come già ho scritto nel Pensieri camminando.
Punti fondamentali della teoria di Schopenhauer
- Concezione pienamente idealista: il mondo è frutto del pensiero dell’Io, e viene percepito solamente nel pensiero. Nessuna realtà materiale si affianca al Pensiero.
“Il mondo è mia rappresentazione”: questa è una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace di accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s’egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. (Libro I, § 1.)
- Noi, gli Io individuali, siamo tutti una sola cosa e cioè oggettivazioni dell’(Io) Assoluto; pertanto del mondo non vi sono tante rappresentazioni quanti sono gli individui, ma una sola, quella dell’Assoluto.
- Natura dell’Assoluto è la Volontà, non sorretta dalla Ragione: una Volontà cieca che genera il Mondo (o meglio le Idee) e porta allo scontro degli individui, senza altro scopo che una cieca cupidigia il cui risultato è una perenne infelicità.
- Il mondo non è solo mia rappresentazione, ma è soprattutto la mia Volontà. Allo stesso tempo esso è Volontà dell’Assoluto.
- Necessità per l’individuo che vuole riscattarsi da questa infelicità, di annientare in sé la Volontà, dapprima attraverso l’altruismo ed il sacrificio, poi con l’atarassia, cioè la mancanza di ogni desiderio.
Quest’ultima è in realtà la tesi dei Veda, ed il punto di partenza per Schopenhauer, che piega la filosofia idealista a questo scopo, attraverso una serie di giochi di parole che guidano il percorso del ragionamento verso una conclusione prefissata.
Passi fondamentali del ragionamento proposto
La dottrina classica, quella propria della filosofia cristiana e occidentale, vedeva in Dio tre caratteristiche: l’Essere, la Ragione ed il Volere, definito come Amore. Questa è la Trinità cristiana, ma anche la concezione filosofica di Dio tradizionale.
Hegel sottolinea dell’Assoluto solamente la Ragione (l’Essere è in realtà un sottinteso necessario, mentre la Volontà è oscurata dalla razionalità, che la determina). Schopenhauer, per giungere alle conclusioni desiderate, deve invece negare la razionalità dell’Assoluto e sottolinearne l’aspetto della Volontà, che senza Ragione e senza Amore è solamente cieca brama di possesso e autorealizzazione.
Per far questo egli parte dalla dottrina kantiana, che attribuisce i concetti logici alla ragione umana nei soli rapporti con il fenomeno, in particolare per il concetto di causa (categorie).
Quindi il concetto di causa è solamente il modo proprio del presentarsi allo spirito senziente dei fenomeni, cioè della rappresentazione mentale del mondo.
Nessuna causalità pertiene al noumeno, cioè alla realtà vera, l’Assoluto.
Poiché Ragione coincide con Causa, cioè i nessi razionali sono nessi causali, la Ragione non si spinge al di là del fenomeno.
A questo punto però occorre superare la famosa antinomia kantiana: se la causa appartiene al fenomeno, cosa causa il fenomeno? Cioè, come il noumeno (ciò che è) causa il fenomeno (ciò che appare)? E poi, come il fenomeno causa la sensazione all’interno dello spirito senziente? Questo problema, irrisolto in Kant, lascia posto alla causa anche al di sopra del puro fenomeno: in effetti Kant scopre che la causa è una categoria della ragione umana, ma non può dir nulla se essa sia strumento anche della Ragione divina, oltre che di quella umana.
Ma Schopenhauer lo deve invece escludere, e lo fa in questo modo: non è necessaria alcuna causalità tra fenomeno e spirito senziente, poiché le due cose, intrinsecamente unite nella rappresentazione, sono la stessa cosa: non esiste fenomeno senza spirito senziente, nè sentire senza fenomeno.
Il fenomeno a sua volta è il riprodursi dell’Idea originaria (l’idea platonica), la quale è una oggettivazione dell’Assoluto.
Con questo ragionamento tortuoso, ogni casualità è esclusa nel percorso dall’Assoluto alla rappresentazione, e la causa rimane tutta interna alla rappresentazione stessa, che coincide con la unione soggetto-fenomeno.
In tal modo risulta facile affermare che la natura dell’Assoluto è solamente la Volontà (senza Ragione).
A questo punto Schopenhauer inizia il discorso etico, più propriamente vedico: poiché la cieca brama che ci guida non ci dà felicità, ma solo dolore, essa è Male. E’ quindi nostro dovere (od interesse?) opporci ad essa. Per fare ciò dobbiamo abbandonare ogni azione o motivazione che faccia capo al nostro desiderio od interesse: questo si ottiene dapprima attraverso la contemplazione artistica, con l’altruismo ed in fine con l’ascetismo e l’atarassia, cioè la rinuncia completa ad ogni desiderio.
Questa è la strada che porta l’umanità a vincere la cieca brama che ci mette l’uno contro l’altro. Su questa strada l’autore trova il Cristianesimo e l’Induismo, Cristo, gli asceti ed i Santi cristiani, assieme ai santoni indù. Ma mentre il Cristianesimo parla di Amore per la Creazione, Schopenhauer è mosso dal solo scopo di vincere ed uccidere in noi ogni desiderio.
Critiche al ragionamento di Schopenhauer
L’intero discorso dell’Autore si regge sull’esclusione della Ragione dall’Assoluto. Ma a questo risultato Schopenhauer giunge non con ragionamenti, ma con semplici giochi di parole, abbastanza facili da scoprire.
Primo: la causa può venir detta, leibnizianamente, principio di ragion sufficiente. Pertanto l’affermazione che la causalità è il modo di presentarsi dei fenomeni può esser detta: il principio di ragion sufficiente è il modo ecc. Ma il Nostro, abbreviando, dice: il principio di ragione è il modo di presentarsi dei fenomeni, e identifica così, con un gioco di parole, Causa con Ragione. Ma la Ragione non si limita alla sola causalità, né al solo fenomeno: i principi logici e la matematica, che fanno parte della Ragione, non sono nessi causali né fenomenici. Schopenhauer cerca di superare questa difficoltà affermando che i nessi logici sono necessari, e necessità coincide con causalità, ma questo è totalmente arbitrario: necessità è una categoria o un concetto che, forse, comprende la causalità, ma non ne è compreso, se non stravolgendo i significati, cosa tipica dei giochi di parole: i due concetti sono diversi, sono stati pensati perché diversi e vengono utilizzati con significati diversi.
…ogni dimostrazione poggia sopra una necessità, ma ogni necessità si fonda esclusivamente sul principio di ragione. Imperocchè l’essere necessario e il derivare da una causa sono concetti equivalenti. (Libro I, § 7.)
Qui la confusione dei termini è evidente: l’uso della proposizione principio di ragione sia per indicare causa, sia ragione serve a dimostrare l’identità dei due termini, con un finto sillogismo in cui l’identità è presupposta in partenza.
Se a=b e b=c allora c=a è una proposizione logica; ma la conseguenza non è causata dai due termini antecedenti, poiché ciascuno di questi, a sua volta, consegue dagli altri due, mentre la causa è caratterizzata dal non potersi scambiare con il proprio effetto. Inoltre, le proposizioni logiche e matematiche non fanno in alcun modo parte del fenomeno, ma solamente del ragionamento puro, e quindi questo proverebbe esattamente il contrario di ciò che Sch. vuol dimostrare, e cioè che la ragione sta solo nel fenomeno.
Secondo: per eliminare il nesso causale, nella sensazione, tra soggetto ed oggetto, egli afferma che ogni sensazione è unità di soggetto e di oggetto, che la costituiscono. Pertanto è escluso alcun nesso causale fra i due, che coincidono.
Il realismo pone l’oggetto come causa, e il suo effetto pone nel soggetto. L’idealismo di Fichte fa invece l’oggetto effetto del soggetto. Ma non potendo esservi alcun rapporto fra soggetto ed oggetto secondo il principio di ragione – ciò che non sarà mai ribadito abbastanza – … l’oggetto già presuppone il soggetto: fra i due non può dunque sussistere alcun rapporto di causa ed effetto. (Libro I, § 5.)
Anche questo è solo un gioco di parole: o i termini sono equivalenti, cosa che non può essere, visto che li comprendiamo come diversi, o non lo sono, ed allora sono cose differenti, che sussistono anche separatamente (almeno per il soggetto; in particolare il soggetto cosciente permane attraverso diverse sensazioni, ed effettua ragionamenti successivi alla sensazione, come lo stesso Sch. ammette). In tal caso, il sorgere della sensazione entro il soggetto deve essere causato da qualche cosa, al di là dei modi di dire.
Terzo: per eliminare il nesso causale tra Assoluto e mondo fenomenico, Sch. afferma che le Idee (platoniche) sono oggettivazioni dell’Assoluto, mentre il fenomeno è una ripetizione dell’Idea.
Anche l’Io individuale è una oggettivazione dell’Io Assoluto.
A pochi può sfuggire che non basta inventarsi nuove parole per escludere che in tutte queste oggettivazioni o ripetizioni si nasconde il significato di causa. Infatti, nell’oggettivazione, ad es., o quel che consegue è la stessa identica cosa del precedente, o trova nel precedente il suo principio di ragion sufficiente. Poiché né l’Io individuale, né le Idee sono la stessa cosa dell’Assoluto, ne deriva che questo deve essere il principio di ragion sufficiente di quelli. Che se poi Schopenhauer volesse sostenere con Kant che questo ragionamento, facendo riferimento al principio di ragione, non è applicabile all’Assoluto, dovremmo rispondergli che parimenti non sono a quello applicabili neppure i suoi ragionamenti.
Quarto: se la Ragione non è presente nell’Assoluto, come può apparire nel Fenomeno? Si costruisce da sola? Oppure è una creazione della nostra mente? Ma se anche noi, come le Idee, siamo oggettivazioni dell’Assoluto, in qualche modo deve provenire da questi.
Quinto: se la Ragione non proviene dall’Assoluto, come, procedendo secondo ragione, possiamo giungere alle conclusioni dell’Autore, identificare il Bene ed il Male, decidere cosa dobbiamo fare ecc. Non sarebbe allora tutto questo assolutamente illusorio e farneticante?
Sesto: come è possibile affermare che la cieca Volontà è male? Il Bene ed il Male dovrebbero avere il loro fondamento proprio nell’Assoluto (Dio), e coincidere, il Bene, con la Sua volontà e, il Male, con l’opposizione ad essa. In caso contrario non si hanno né Bene né Male. In Sch. invece abbiamo la soluzione esattamente opposta: il Bene è il contrario della Volontà dell’Assoluto. Ma questo come è possibile dirlo?
Per Sch. questo deriva dal fatto che la Volontà ci reca dolore. Ma l’autore non si pone il problema del perché il dolore dovrebbe essere male. Accettando questa teoria, dobbiamo affermare che il Bene è ciò che non ci dà dolore, ma allora ricadiamo nell’egoismo individuale, nella difesa dei nostri interessi, e cioè proprio nell’esercizio di quella Volontà che volevamo combattere. Per essere coerenti con Schopenhauer e per difendere una morale indipendente dai nostri desideri, dovremmo invece uniformarci alla volontà dell’Assoluto, proprio perché questa ci reca dolore, ma ricadremmo nel circolo vizioso.
In breve, la teoria è contraddittoria, e perciò sbagliata. Solo con la coincidenza del Bene con l’Assoluto si ha una soluzione priva di contraddizioni, e si giustifica anche l’ascetismo ed il sacrificio.
Settimo: per evitare nessi causali a livello dell’Assoluto, Sch. è costretto a identificare l’Io individuale con l’Assoluto, e quindi con tutti gli altri individui. Ma se sono l’Assoluto, come posso oppormi ad esso? In realtà, l’Io individuale assume anche per Sch. caratteristiche diverse dall’Assoluto, ma egli non può dirlo, perché questo comporterebbe un nesso di causalità tra i due, cioè l’individuo (così come le Idee, i fenomeni, il mondo ecc.) troverebbe la sua ragion sufficiente nell’Assoluto. Ma in tal caso cadrebbe proprio il fondamento della dottrina.
In parole povere, non si riesce ad escludere la Ragione dall’Assoluto, senza entrare in una serie di contraddizioni inestricabili.
Il concetto di Arte in Schopenhauer
- Idea e concetto
Propedeutica all’esposizione del concetto di Arte, è per Sch. la distinzione, assolutamente originale, che egli pone tra Idea e Concetto. Normalmente queste due espressioni sono usate come sinonimi, ma il nostro autore le identifica in modo totalmente differenziato.
Idea è l’Idea platonica, quella che scaturisce direttamente dall’Assoluto (noi diremmo dalla Mente di Dio) e che costituisce il prototipo della molteplicità dei fenomeni ad essa analoghi.
L’Idea viene quindi prima dei fenomeni, delle cose: la rosa ideale viene prima delle infinite rose che sbocciano, si inturgidiscono, appassiscono e muoiono ogni istante sulla terra.
Concetto è invece quello a cui la mente umana perviene dopo aver esaminato il fenomeno, e che ha necessariamente natura descrittiva e discorsiva.
L’Idea è una e semplice, e da questa scaturisce la molteplicità, il Concetto è strutturato e complesso, e proviene dalla molteplicità. L’Idea è a priori, il Concetto a posteriori.
Il Concetto di rosa è la descrizione delle proprietà e delle caratteristiche che fan sì che un dato oggetto possa chiamarsi rosa, ed è tratto dall’esame delle infinite rose che cadono sotto la nostra attenzione.
L’idea è l’unità infranta nella pluralità, secondo la forma temporale e causale della nostra apprensione intuitiva: invece il concetto è l’unità ricostituita, mediante il procedere astratto della nostra ragione. Questa si può chiamare unitas post rem, quella unitas ante rem. (Libro III, § 49.)
- Arte come rivelazione dell’Idea
L’artista, secondo Sch., è colui che ha la capacità di intuire l’Idea, senza passare per il Concetto, cioè senza passare attraverso la ragione discorsiva, con una sorta di contatto diretto con l’Assoluto. Attraverso l’opera d’arte egli trasmette questa Idea a chi contempla la sua opera.
L’artista è il Genio, colui che ha la capacità di intuire l’Idea, per contatto diretto con l’Assoluto.
Mentre per apprendere il Concetto di rosa noi dovremmo leggere un lungo trattato di botanica e memorizzare una gran quantità di nozioni, l’opera d’arte rappresentante la rosa ci trasmette direttamente l’Idea di questa, senza passare attraverso la nostra ragione.
La contemplazione dell’opera d’arte, essendo distaccata dalle nostre passioni e dai nostri interessi, costituisce il primo passo di quel distacco dalla Volontà cieca (brama di autorealizzazione e di possesso), nel quale si trova la possibilità di salvezza.
Tutte le nostre considerazioni sull’arte finora svolte hanno sempre per base la verità, che suo oggetto – la cui rappresentazione è scopo dell’artista, e la cui conoscenza deve quindi preceder come germe e principio l’opera di lui – è un’Idea nel senso platonico, e nient’altro: non la cosa singola, oggetto della comune percezione; né meno il concetto, ch’è oggetto del pensare razionale e della scienza. (Libro III, § 49.)
Il sublime e l’eccitante
Vertice dell’espressione artistica è il sublime, che si ha, ad esempio, nelle rappresentazioni della Natura, o dell’Uomo, nelle sue espressioni più terrificanti: un mare in tempesta, un orrido montano, ma anche una cieca follia sterminatrice.
Caratteristica del sublime è il fatto che in esso noi ammiriamo qualche cosa che costituisce, nella realtà, un pericolo per la nostra incolumità e sopravvivenza. Pertanto, nell’ammirazione del sublime noi trascendiamo il nostro io individuale, superando ogni considerazione per i suoi diretti interessi, al punto da ammirare qualche cosa che gli è addirittura nemico.
Esso costituisce perciò un ulteriore passo verso l’ascesi, al di là della normale espressione artistica.
Il contrario del sublime è l’eccitante, che si ha quando l’arte, in tal caso degenere, rappresenta cose che eccitano i nostri sensi perché da noi desiderabili. Tali sono le rappresentazioni erotiche, ma anche, secondo Schopenhauer, che scrive evidentemente in un secolo in cui la fame spadroneggiava ancora nei paesi europei, le nature morte con soggetti culinari e mangerecci.
L’eccitante porta all’esaltazione del nostro io individuale, cioè in direzione contraria all’ascesi.
Esso non è quindi vera arte, e va escluso dall’orizzonte dei prodotti artistici.
Ecco due bei brani dell’autore, nei quali possiamo non solo apprezzare l’idea, ma anche il bello stile e la chiarezza dell’esposizione.
- Il sublime
In grado ancor più alto questo può esser suscitato da un’altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce attraverso minacciose, nere nubi d’uragano; mostruose, nude, precipiti rocce, le quali chiudono in loro cerchia la vista; fragorose spumeggianti corrènti; assoluto deserto; gemiti dell’aria fischiante attraverso le gole. La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica, la nostra volontà, che vi s’infrange, ci sta qui evidente innanzi agli occhi: ma fin che l’angoscia individuale non prende il sopravvento, finché noi restiamo in estetica contemplazione, ficca l’occhio dentro quella battaglia della natura, dentro quello spettacolo di volontà infranta il puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturbato, non coinvolto, coglie le idee appunto in quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi e paurosi.
Proprio in tal contrasto è il sentimento del sublime. Ma più forte ancora è l’impressione, quando abbiamo in grande, davanti agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la possibilità d’udir la nostra stessa voce; – o quando ci troviamo sull’ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive, sprizzano alta nell’aria la spuma, e la burrasca urla, il mare mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima, nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come fragile manifestazione della volontà, che il più piccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme contro la possente natura, da tutto dipendente, preda del caso, meno che nulla di fronte a potenze mostruose; e d’altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno, tranquillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condizione dell’oggetto, è appunto quegli che porta in sé questo mondo intero; la tremenda battaglia della natura non è che la sua rappresentazione, mentr’egli stesso contempla tranquillo le idee, libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa è la piena impressione del sublime. Qui la produce la vista d’una potenza, che minaccia all’individuo distruzione: potenza di lui, senza confronto, maggiore. (Libro III, § 39.)
- L’eccitante
Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui trovar posto l’osservazione, che il vero e proprio contrario del sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibile per tale: l’eccitante. Chiamo così ciò che eccita la volontà, con l’immediato prometterle esaudimento, appagamento. Se l’impressione del sublime è nata dal fatto che un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto di pura contemplazione, e questa viene continuata sol mediante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi sopra l’interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce il sublime in tal disposizione; l’eccitante viceversa fa discendere lo spettatore dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione del bello, eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo di oggetti che direttamente l’attraggono: sì che lo spettatore non è più puro soggetto del conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto del volere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza di genere lieto, è concetto di troppo ampia sfera per mancanza di distinzione; ed io devo metterlo in disparte, anzi disapprovarlo. Ma nel senso indicato e spiegato, trovo nel dominio dell’arte due sole specie di eccitante, ed entrambe indegne di lei. L’una, davvero bassa, nella natura morta degli olandesi: quando ci si inganna a segno da scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, i quali per la loro ingannevole rappresentazione suscitano l’appetito, che è appunto un’eccitazione della volontà, per cui cessa ogni contemplazione estetica dell’oggetto. Frutta dipinta si può ancora ammettere, presentandosi come successivo sviluppo del fiore e come bel prodotto di natura per forma e colore, senza che si deva per forza pensare alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamo spesso, con naturalezza da illudere, vivande allestite e servite in tavola, ostriche, aringhe, gamberi di mare, pane e burro, birra, vino, etc.: cosa del tutto riprovevole. Nella pittura storica e nella scultura, l’eccitante consiste in figure nude, che per l’atteggiamento, la mezza nudità e tutto il modo della rappresentazione mirano a destare libidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta la contemplazione puramente estetica: ossia si opera in opposizione allo scopo dell’arte. Tale difetto corrisponde in tutto a quello or ora biasimato negli olandesi. Quasi sempre ne son privi gli antichi, malgrado tutta la bellezza e piena nudità delle figure; perché l’artista medesimo le ha create con puro, obiettivo spirito, pieno dell’ideale bellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa concupiscenza. L’eccitante è quindi sempre da evitarsi nell’arte.
V’è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevole che non sia il positivo or ora illustrato: e questo è il nauseante. Appunto come il vero eccitante, questo sveglia la volontà dello spettatore e distrugge con ciò la contemplazione puramente estetica. Ma quel che viene per suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una riluttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggetti del suo ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch’esso è del tutto inammissibile nell’arte; dove tuttavia anche il brutto – fin quando non sia disgustoso – può esser tollerato a suo luogo, come vedremo in seguito. (Libro III, § 40.)
Considerazioni finali
Nella esposizione di Schopenhauer trovo una forte analogia con una mia vecchia idea a proposito di arte, che esposi in un capitolo del Pensieri camminando, e della quale riporto qui un brano:
L’Arte è il modo di trasmissione a-razionale dei sentimenti e delle sensazioni da parte dell’artista ai fruitori della sua opera. Attraverso il discorso razionale, noi trasmettiamo bene i ragionamenti, le informazioni, gli algoritmi, ma non riusciamo a trasmettere sentimenti o sensazioni, che, anche se descritte, vengono colte dall’ascoltatore con la ragione, e quindi in modo diverso da come le sente il protagonista. L’arte, in tutte le sue forme, serve invece a trasmettere in modo diretto proprio quelle parti non razionali dell’animo umano, difficilmente trasferibili da persona a persona. (Pensieri camminando, 5.5.1.)
Mentre io sottolineo più la forma, diretta ed a-razionale, dell’espressione artistica, che riguarda sentimenti o sensazioni, Schopenhauer identifica la natura dell’arte nella natura del soggetto artistico: Idea, piuttosto che Concetto, dove Idea è caratterizzata da intuizione ed immediatezza, Concetto da ragione ed elencazione.
Ciò non toglie che, in pratica, si parla di cose molto simili: immediatezza, a-razionalità, intuitività dell’Arte. Per Schopenhauer l’arte è il primo passo verso l’ascesi ed il Nirvana, per me l’Arte, come il Bello per Platone, è il primo passo per la salita dello Spirito a Dio:
Ma il senso che più di ogni altro muove l’artista e che gli fa raggiungere le vette più alte dell’arte è indubbiamente quello del Sacro, della Maestà del Mistero religioso, dell’emozione del contatto con Dio o con figure carismatiche rivestite di santità. (Pensieri camminando, 5.5.1)
L’Arte è la forma più diretta ed immediata del potere creativo dello Spirito umano. Si può addirittura ipotizzare che, attraverso l’artista, lo Spirito stesso si esprime e realizza; nell’Arte, lo Spirito individuale confluisce direttamente nello Spirito Assoluto e ne diviene uno strumento. (Pensieri camminando, 5.5.3)