terzo intermezzo: Il principio di indeterminazione di Heisenberg

Il principio di indeterminazione

Nel 1927, il fisico tedesco Werner Heisenberg formula un principio che resterà fondamentale nella storia della Fisica. Egli si accorge che il progresso nello studio e conoscenza delle particelle sempre più piccole delle quali si compone la materia, è ostacolato dalla difficoltà di esaminarle direttamente, guardandole, con gli occhi o con strumenti adeguati, così come si possono contemplare i fenomeni macroscopici della Fisica classica.

Egli attribuisce questo fatto alla constatazione che, sotto una certa dimensione, lo strumento stesso di osservazione disturba la misura e modifica lo stato della particella osservata. Un fascio di luce è costituito da fotoni, le cui dimensioni e la cui energia è superiore a quella dell’elettrone, che da questi non potrà mai venir colpito senza esserne sbalzato dal suo stato. Anche i mezzi più sofisticati, come i microscopici elettronici, che usano come mezzo di visione l’elettrone stesso, o quelli basati su raggi ed onde varie, sono comunque tali da interferire e addirittura cancellare il fenomeno che si vorrebbe osservare.

Da questo fatto Heisenberg trae la conclusione che non sia possibile conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone: se è nota l’una, resta sconosciuta l’altra. Tutto ciò sembra logico ed evidente anche ad un profano: resta solo da capire questo strano legame tra velocità e posizione, ma lasciamo volentieri ai fisici dirimere queste particolarità. A noi è sembrato chiaro il fatto che le particelle sono così piccole, che sfuggono alla nostra osservazione diretta.

 

Prime complicazioni

Ma la cosa, se restasse così, sarebbe troppo semplice.

I fisici, giustamente, non si accontentano di sapere di non sapere dove si trovi o a che velocità vada l’elettrone: dopo lunghe pensate si scopre che, anche se non si sa tutto di lui, almeno possiamo conoscere con quale probabilità si trovi ora qui ed ora là all’interno di una piccola sfera di spazio nella quale l’elettrone si trova relegato. Pertanto è possibile definire un’equazione che descrive con quale probabilità esso si trovi, e con quale velocità esso si muova.

Questa equazione è detta funzione d’onda dell’elettrone, e analoghe equazioni vengono successivamente definite per le altre particelle ancor più piccole.

Per fare un esempio banale, immaginiamo di chiedere a una moglie dove si trovi il marito, uscito di sera: essa potrà rispondervi che di sicuro non lo sa, ma che al 50% delle probabilità è al bar, al 25% è ancora per strada e per un altro 25% proprio non riesce ad immaginare (lei no, ma noi immaginiamo benissimo).

Questo è quanto la moglie sa del marito, e analogamente una cosa simile conosciamo noi dell’elettrone. Ma tutti noi sappiamo che il marito non è per metà al bar, un quarto per strada ed un altro quarto chissà dove. Egli è sicuramente, tutto intero, in uno di questi posti, e le probabilità dichiarate sono solo frutto della nostra ignoranza: se noi potessimo scorgerlo, vedremmo il pover’uomo in un posto preciso, magari dove lui mai vorrebbe esser visto.

 

Anche per l’elettrone, all’inizio, si pensò in questo modo: e vero che noi non potevamo sapere dov’era, ma sicuramente esso doveva essere in un posto preciso e muoversi con velocità determinata, anche se sconosciuta. Ma sentite come Popper parla della cosa:

E’ molto plausibile affermare che, quando possediamo una conoscenza, una conoscenza certa, non abbiamo necessità di una teoria della probabilità, così che il dover applicare una tale teoria a un problema indica l’incertezza della nostra conoscenza in quel particolare ambito… invece, la teoria delle probabilità non entra nella fisica a causa della nostra ignoranza, ma a causa della natura della nostra questione, del problema che vogliamo risolvere.

K.Popper, Il mondo di Parmenide, Piemme, Asti 1998, p. 257.

 

Sorprendentemente qualche fisico iniziò a sostenere, infatti, che l’equazione della forma d’onda dell’elettrone era proprio sostanzialmente vera, e cioè che l’elettrone non è in un posto o nell’altro tutto intero, come noi immaginiamo per il marito dell’esempio, ma si trova realmente con una certa probabilità in un posto e con un’altra in un altro. Tenendo conto che questa probabilità è una funzione continua, la particella incriminata si trova sparpagliata nello spazio con un certo grado di probabilità per ogni punto di questo, ma non come una poltiglietta diffusa: l’elettrone è presente in ogni punto tutto intero nella sua realtà, solamente con solo una certa frazione di probabilità.

 

La teoria probabilistica è probabilmente vera

Questa affermazione è così straordinaria e sconvolgente, che suscitò l’incredulità e la strenua opposizione di Einstein, che diede la celebre risposta “Dio non gioca a dadi”, intendendo che un’assoluta casualità della materia non poteva essere frutto della Mente del Creatore.

Gli esperimenti successivi, come quello famoso della diffrazione del singolo fotone, sembrarono però dimostrare l’assoluta veridicità di questo asserto, ed oggi questa è la teoria ritenuta assodata, quantunque incredibile.

L’esperimento citato consiste in questo: facendo passare la luce proveniente da una sorgente puntiforme attraverso due fessure longitudinali parallele, su uno schermo sensibile posto dietro le due fessure appaiono sia due barrette luminose, corrispondenti alle fessure, sia altre barrette, frutto della interferenza tra i due raggi luminosi uscenti dalle fessure stesse.

Se però dalla sorgente luminosa facciamo in modo che si origini un fotone alla volta, mediante processi ritardanti appositi, sullo schermo retrostante le fessure (che dovrà essere uno schermo sensibile che memorizza l’immagine), dovrebbero apparire, dopo un certo tempo ed un certo numero di fotoni emessi, solamente le immagini delle due fessure, poiché il singolo fotone non può interferire con se stesso, in quanto passa o da una parte o dall’altra.

Invece, dopo un certo tempo, sullo schermo cominciano ad apparire le figure di interferenza, come se il singolo fotone, od elettrone se l’esperimento è di natura elettronica, passasse contemporaneamente attraverso le due fessure, interferendo con se stesso.

Nessuna spiegazione è possibile del fenomeno, se non pensando che la particella in causa esista nello stesso istante in più posizioni dello spazio, conformemente alla propria funzione di probabilità, ed il singolo elettrone passi effettivamente attraverso le due fessure.

 

Prime conclusioni

Su questo terreno si mossero, dopo e con Heisenberg, Schrödinger e Dirac, che hanno fatto nascere la meccanica ondulatoria, base della moderna fisica atomica e nucleare. Secondo tale ipotesi, ogni particella non è costituita che da un’onda di probabilità, che definisce la maggior o minore intensità di probabilità di esistenza della particella nello spazio e  nel tempo.

Le onde, si usa dire, non devono propriamente essere considerate reali. E’ vero che producono fenomeni d’interferenza – e questi costituiscono la prova cruciale che nel caso della luce ha rimosso ogni dubbio sulla reale esistenza delle onde -, tuttavia s’insegna ora che tutte le onde, comprese quelle della luce, devono essere considerate “onde di probabilità”.

E.Schrödinger, L’immagine del mondo, Boringhieri, Torino 1986, pp. 254-255.

 

Scopriamo, nella descrizione del Fantappiè, il significato di tale teoria:

Cominciamo anzitutto con l’osservazione che il collegamento logico tra la teoria atomico-corpuscolare e la meccanica ondulatoria si è presentato subito d’immediata urgenza al nascere di quest’ultima, per la necessità di poter concepire contemporaneamente i fenomeni elementari nei due aspetti corpuscolare e ondulatorio, che sembravano assolutamente inconciliabili fra loro.

Com’è ben noto, tale contrasto è stato ormai superato rinunciando definitivamente a ricollegare le onde direttamente con i singoli corpuscoli (come aveva tentato de Broglie) e pensando invece la loro “intensità” come legata soltanto alla densità di probabilità dei corpuscoli stessi. Cessa con ciò la possibilità di una previsione completa del comportamento dei singoli corpuscoli, cioè di una descrizione assolutamente deterministica del loro comportamento, la quale viene invece trasferita alle onde, che si possono descrivere e prevedere in tutti i loro dettagli, con la conseguente possibilità di una descrizione deterministica per i soli fenomeni di massa, ove interviene un grandissimo numero di corpuscoli…

…in tal modo viene a rovesciarsi la mutua posizione del principio deterministico e del calcolo delle probabilità, qual era precedentemente alla teoria dei quanti…Sono le leggi probabilistiche di questi fenomeni, che si concepiscono come costituenti le basi fondamentali dell’universo, mentre quelle deterministiche, valide per il macrocosmo, si considerano solo come loro particolari conseguenze, dovute alla teoria dei grandi numeri.

L.Fantappiè, Principi di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, Di Renzo, Roma 1993, p. 17.

 

La teoria delle funzioni di probabilità ha avuto altre due conseguenze notevolissime:

  • la prima, fa notare ancora il Fantappiè, è che la ricerca scientifica, dalla osservazione empirica dei fenomeni è passata gradualmente alla sola analisi matematica delle funzioni definite. Si è notato che le soluzioni delle equazioni, anche se ritenute impossibili, davano risultati, che dagli esperimenti risultavano confermati nella realtà. Pertanto le equazioni venivano ad assumere un grado di attendibilità sempre più alto, fino a confondersi con il fenomeno stesso.
  • La seconda, conseguenza della prima, ma, da un certo punto di vista anche giustificazione di questa, è la concezione che la realtà delle particelle elementari, e quindi dell’intero universo che da queste deriva, consista nelle sole equazioni che le definiscono, e che la realtà materiale, assolutamente inconoscibile e non sperimentabile, non esista per nulla.

 

Le equazioni sono forme del pensiero, e la riduzione della realtà ad equazione corrisponde a ridurre la realtà ad una forma di puro pensiero.

Riporto un brano del Fantappiè, realtivo al primo punto:

Prima la teoria matematica interveniva nelle teorie fisiche solo dopo, solo per la precisazione quantitativa dei fatti, delle grandezze, ma non era necessaria per l’espressione qualitativa delle teorie stesse. Adesso, la matematica non entra dopo, entra prima; per poter anche solo pensare senza contraddizione i fenomeni, è necessario adoperare, invece delle vecchie categorie date dai sensi, queste nuove categorie elaborate dai matematici, in generale molto più difficili, appunto perché non appoggiate all’esperienza sensibile…

Le scoperte più meravigliose della fisica, almeno da una cinquantina d’anni ad oggi, sono state fatte prima dal calcolo matematico, usando questi schemi logico-matematici, che ci hanno fatto vedere con l’occhio dell’intelletto, prima che con l’occhio sensibile, le realtà che potevano esserci e che poi sono state verificate con l’esperienza…

Un altro esempio ci è fornito dalla scoperta dell’elettrone positivo. E’ ben noto infatti che, tenendo conto della correzione relativistica nell’equazione ondulatoria dell’elettrone, Dirac ottenne un sistema di equazioni che fornivano due tipi di soluzioni: un tipo di soluzione spiegava benissimo l’elettrone negativo, quello che conosciamo tutti; l’altro tipo forniva invece dei livelli negativi di energia, e cioè delle cose impossibili, che non si sapevano interpretare. Poi ci si accorse che queste altre strane soluzioni avrebbero potuto rappresentare un corpuscolo di uguale massa e di carica opposta, e cioè quell’elettrone positivo o positrone che alla fine Blackett e Occhialini hanno trovato per davvero.

L.Fantappiè, Conferenze scelte, Di Renzo, Roma 1993, pp. 86-88.

 

Ed ecco l’opinione di Schrödinger, sul secondo punto:

La vecchia idea [sulle particelle elementari] era che la loro individualità fosse basata sulla identità della materia che le costituiva… La nuova idea è che ciò che permette l’individuazione in queste particelle ultime o piccoli aggregati è il loro aspetto, la loro organizzazione.

L’abitudine del linguaggio usuale ci inganna, e sembra richiedere che, ogni volta che noi intendiamo pronunciare la parola “aspetto” o “forma” si debba trattare dell’aspetto o della forma di qualche cosa, che un substrato materiale sia richiesto per prendere forma. Ma quando si arriva alle particelle prime che costituiscono la materia, sembra che non ci sia alcuna giustificazione nel pensare di esse ancora come formate da una qualche materia.

Esse sono, come che sia, pure forme, nient’altro che forme; ciò che si ritrova in osservazioni successive è questa forma, non un pezzetto individuale di materia.

E. Schrödinger, Scienza e Umanesimo, Sansoni, Firenze 1953, pp. 29-30.

 

Conseguenze metafisiche o metafisicheggianti della teoria

L’idea che la materia esista, a livello di particelle elementari, in forma di probabilità e non di presenza univocamente definita, ha fatto allargare, ad alcuni scienziati, l’idea della Funzione di probabilità dalle singole particelle ai loro aggregati, e quindi anche ai corpi di maggiori dimensioni fino a giungere a noi stessi.

Un fisico americano, Frank J. Tipler (*), nel suo libro la Fisica dell’Immortalità, giunge a sostenere che anche noi, come ogni altra cosa, siamo definiti da funzioni di probabilità. Ciò significa che, come corpi, potremmo partecipare contemporaneamente a diverse realtà parallele, esistenti con diversi gradi di probabilità, mentre la nostra coscienza ne coglie solo una in particolare. La nostra libertà consisterebbe nel poter passare, a livello di autocoscienza, da una possibilità all’altra, effettuando le scelte ai nodi di differenziazione. In tal modo egli pensa di conciliare determinismo e libertà, conoscenza divina del tutto e libera scelta umana.

Nella cosmologia quantistica, l’universo è rappresentato da una funzione d’onda…la collezione di tutte le possibili funzioni d’onda forma l’insieme dei mondi possibili: quel che è contingente è qual è la singola e unica funzione d’onda dell’universo che si realizza. Ma i mondi possibili non sono più contingenti, sono tutti realizzati…

La tesi principale dell’interpretazione dei molti mondi è che ciascuno di questi universi esiste realmente: la realtà quantistica è costituita di un numero infinito di universi.

Naturalmente, noi non siamo consapevoli di tutti questi mondi – lo siamo soltanto di uno – ma le leggi della meccanica quantistica ne forniscono la spiegazione: in generale, noi dobbiamo essere inconsapevoli di quei mondi paralleli…

Nella cosmologia quantistica il tempo non esiste…Tutto ciò che si ha sono cammini (traiettorie)  tra tutti i possibili campi fisici…ciascuno di questi cammini definisce una storia, uno spazio-tempo completo.

Come esiste una infinità di passati reali che hanno portato allo stato presente, così esiste una infinità di autentici futuri che si evolvono dallo stato presente.

…la teoria del libero arbitrio si basa in modo essenziale sull’ontologia dei molti mondi. Il libero arbitrio prescrive che sia proprio vero che l’agente avrebbe potuto agire altrimenti. L’unico modo per essere sicuri che l’agente avrebbe potuto agire altrimenti è che l’agente abbia effettivamente agito altrimenti. Ciò vuol dire che è necessario che di fatto l’agente compia due o più azioni incompatibili allo stesso tempo. Naturalmente ciò è possibile soltanto in un universo dei molti mondi.

F.J.Tipler, la Fisica dell’Immortalità, Mondadori, Cles (TN) 1995, pp. 169-170.

(*) F.J.Tipler, studioso di relatività generale è docente di fisica matematica alla Tulane University (Louisiana).

 

Misera fine del materialismo positivista

Queste nuove visioni scientifiche pongono fine, se ancora ce ne fosse bisogno, a tutte le correnti positivistiche e materialistiche, ammantatesi di scientificità, vive ormai solo nell’immaginario collettivo, per la perdurante ignoranza scientifica e filosofica dei loro sostenitori e che lasciano campo solo all’ateismo scettico del pensiero debole.

A questo proposito vorrei proporre questa citazione di Rüdiger Safranski, dal suo libro Il Male:

All’ultimo Schelling toccò, alla metà dell’Ottocento, di vivere questo tradimento dello Spirito, questa cacciata dello Spirito dall’ambito della scienza…

Questo realismo e materialismo della seconda metà del secolo riusciranno nell’acrobazia di avere un concetto basso dell’uomo e di far grandi cose con lui: sempre che vogliamo chiamare grande la moderna civiltà della scienza.

Allora ebbe inizio il progetto di una modernità fondata su un atteggiamento di opposizione a qualunque eccesso intellettuale e fantastico. Ma neppure la fantasia più eccessiva sarebbe riuscita a immaginare quali mostruosità e quanto male avrebbe prodotto lo spirito di disincanto positivistico.

A far passare l’ubriacatura dell’idealismo tedesco aveva provveduto, intorno alla metà dell’Ottocento, un materialismo di pasta grossa. Breviari del disincanto rivelarono di colpo potenzialità da bestseller. Uno di questi beccamorti scrisse “Dà prove di presunzione e di superbia chi intende emendare il mondo conoscibile inventandone uno sovrasensibile e innalzare l’uomo sopra la natura appiccicandogli una parte sovrasensibile”

R.Safranski, Il Male, Longanesi, Milano 2006, p. 59.

 

 

 

Appendice al terzo intermezzo:    La teoria della Relatività generale

La velocità della luce

La teoria della Relatività nasce dalla constatazione (esperimento Morley-Michelson), che la velocità della luce nel vuoto è uguale per qualsiasi osservatore, qualsiasi sia la velocità di quest’ultimo.

Cerchiamo di spiegare cosa questo vuol dire.

Se una barca procede contro corrente in un fiume, un osservatore su quella barca vedrà la velocità dell’acqua maggiore di quella vista da un osservatore sulla riva del fiume. Se la barca, al contrario, si muove in favore di corrente, la velocità dell’acqua all’osservatore sulla barca apparirà minore.

Si pensava che la stessa cosa avvenisse per la luce: quando la Terra muove incontro al Sole, la velocità della luce sulla superficie terrestre dovrebbe aumentare di una quantità pari alla velocità terrestre; di altrettanto dovrebbe diminuire se la Terra si allontana dal Sole. Poiché la Terra gira, nel corso del dì si dovrebbero osservare entrambe i fenomeni: al mattino si va verso il Sole, e la velocità della luce dovrebbe aumentare. Al pomeriggio, la luce dovrebbe rallentare.

Un famoso esperimento (Morley-Michelson), utilizzando specchi rotanti e facendo correre un raggio di luce nei due sensi del moto terrestre, dimostrò, al contrario, che la velocità della luce appare sempre identica.

 

La Relatività ristretta

La spiegazione di questo fatto diede origine alla teoria della relatività: si dovette accettare l’idea che spazio e tempo non erano quantità invarianti, ma che esse aumentavano o diminuivano in rapporto (relativamente) alla velocità dell’osservatore. La lunghezza nel senso del moto si accorcia all’aumentare della velocità, fino a divenire uguale a zero alla velocità della luce. Il tempo visto dall’osservatore tende al contrario a dilatarsi, fino a non trascorrere mai alla velocità della luce.

A causa di questi fenomeni, la velocità della luce appare identica, a qualsiasi velocità si muova l’osservatore: tempo e spazio si modificano infatti in modo da far permanere invariata la velocità della luce così come percepita dall’osservatore.

Con queste due trasformazioni, definite da una formula detta di Lorentz, è possibile definire l’universo circostante un qualsiasi osservatore che si muova a velocità rettilinea uniforme, partendo dalle equazioni di stato e di moto relative ad un punto qualsiasi dell’universo.

Questa teoria implica che qualsiasi punto dell’universo, muoventesi a velocità costante, può essere assunto come punto fermo; ovvero che qualsiasi osservatore in quel punto si può ritenere nel centro immobile dell’universo.

Essa fu detta della Relatività Ristretta, poiché implicava per l’appunto questa limitazione (del moto uniforme) riguardo all’osservatore.

 

La Relatività generale

Einstein elaborò successivamente quella che fu detta teoria della Relatività generale: egli si propose di trovare delle formule di trasformazione delle equazioni spazio-temporali che fossero valide per qualsiasi osservatore, anche quello che si muova di moto accelerato o addirittura rotatorio.

Questa nuova teoria permette di ritenere immobile anche un corpo come la Terra, che normalmente si reputa giri intorno a se stessa ed intorno al Sole, facendo muovere ogni altra cosa intorno ad essa, e calcolandone le formule spaziali e temporali.

 

Implicazioni sulla visione generale dell’Universo

Questo fatto ha delle implicazioni notevoli e curiose, riguardo alla nostra visione dell’Universo.

Infatti, per ritenere ferma la Terra, occorre pensare che il firmamento effettui un giro completo in 24 ore intorno a questa. Ma in tal caso, stelle lontane anni luce dovrebbero muoversi a velocità incredibilmente alte e infinitamente superiori a quelle della luce, cosa non possibile, visto che la velocità della luce è la massima possibile.

Come si rende possibile ciò? L’unica possibilità è che le distanze ed i tempi subiscano una deformazione tale, nelle equazioni risolventi, da rendere possibile la rotazione dell’intero Universo intorno alla terra in un solo giorno, cioè l’Universo risulti molto più piccolo di quanto da noi reputato.

Ma in tali condizioni, si può pensare ad un Universo tutto concentrato attorno alla Terra, e deformato per l’osservatore da una sorta di lente che allontana da noi le sue parti, fino a farcelo apparire di dimensioni illimitate.

Potremmo pensare che con un breve viaggio spaziale questo si possa facilmente controllare: ma ciò non sarebbe vero. Infatti anche per il viaggiatore funzionerebbe la lente allontanante: le distanze ed i tempi si allungano a dismisura, durante il suo viaggio, ed egli non raggiunge mai gli obbiettivi, anche se prossimi; non serve accelerare, più si va forte, più tempo e spazio si deformano.

 

Conseguenze metafisiche

Questa visione delle cose, del resto confermata dagli esperimenti, come tutta la teoria della relatività, ha tre implicanze di carattere metafisico o filosofico.

 

  • Primo: staticità dell’Universo

Mentre prima si pensava che l’Universo fosse tutto in movimento, così da rendere assolutamente relativo ed illusorio il concetto di punto fermo, adesso si può pensare al contrario che l’Universo sia tutto fermo, e il movimento circostante, osservato da ogni suo punto sia di natura, seppur non illusoria, perché oggettivo, misurabile e ripetibile, solamente fenomenica, cioè riferita solo allo spirito senziente dell’osservatore: se ogni punto dell’universo, indipendentemente da qualsiasi suo stato di moto, può essere ritenuto fermo una volta trasferitici su di esso, ogni punto è in realtà fermo, ed il suo movimento appare solamente, guardandolo dagli altri punti.

Ripeto, perché il concetto non è facile: la vera realtà di un oggetto qualsiasi, è quella che si percepisce quanto più si è vicini, non quanto più si è lontani; pertanto il vero stato di un punto spazio temporale (cronotopo) è quello percepito da chi vi sta sopra e non da chi sta da qualche altra parte: ma questo stato è, per l’osservatore, lo stato di quiete, e questo è, perciò, il vero stato del punto, ma, paradossalmente, anche di ogni altro punto dell’Universo.

 

  • Secondo: natura fenomenica della realtà fisica

La realtà fisica è relativa all’osservatore, ma questo non è un soggetto ipotetico ed impersonale, bensì uno spirito senziente ed autocosciente: infatti il tempo è un fenomeno proprio della coscienza, ed il suo variare, rallentare od accelerare, è qualcosa di relativo alla coscienza senziente. Affermare che la velocità della luce è costante relativamente ad ogni osservatore significa infatti porre la realtà ultima delle cose nell’osservazione stessa, e non nelle cose in sé, che non esistono come tali.

Ciò vuol dire che le leggi che regolano l’Universo sono leggi di carattere fenomenico, cioè riguardano ciò che appare alla coscienza, e nulla hanno a che vedere con una realtà materiale, della quale non resta assolutamente più nulla, neppure i due parametri che ad essa tradizionalmente si attribuivano: estensione e movimento.

Il variare con l’osservatore di dimensione e di tempo, i due parametri che misurano le due caratteristiche materiali, rende queste assolutamente fenomeniche, cioè legate alla coscienza di chi osserva , ed illusorie se ritenute valevoli di per se stesse.

Il mondo risulta sempre più fatto di leggi che riguardano lo spirito osservante, che lo vede intorno a sé. E non di leggi che riguardano una materia intesa come ciò che esista indipendentemente dal pensiero.

 

  • Terzo: riabilitazione di Kant e Parmenide.

Se spazio e tempo sono fenomenici, cioè interni allo spirito senziente, ciò vuol dire che il Tutto esiste sempre e in ogni sua parte, dall’inizio alla fine, ed il divenire, il movimento, sono fatti solo della coscienza, che percepisce la realtà in queste forme, regolate da leggi razionali complesse, così come pensava Kant o, prima ancora, Parmenide, che torna a farsi sentire con il suo: to gar auto noein estin te kai einai “E’ infatti la stessa cosa pensare ed essere”!

 

E, per finire, si riafferma la nostra idea di fondo, che il mondo è pensiero di Dio, pensato come un insieme di leggi rigorose, fatto per essere colto dalla nostra coscienza.

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