Funzioni dello Stato: la Giustizia

La giustizia come secondo compito dello Stato

Immediatamente dopo la difesa dalle aggressioni esterne, lo Stato si assume il compito della difesa interna, cioè della difesa dei cittadini dalle aggressioni dei malintenzionati e dei facinorosi.

A questo scopo organizza forze di polizia, chiamate in vari modi, ma il cui compito è il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dello Stato stesso da rivolte e ribellioni (compito che diviene rapidamente prioritario, man mano che lo Stato si impadronisce di ogni potere). Inoltre esso si assume, necessariamente, l’incarico di dirimere le controversie tra i cittadini, giudicando ed emettendo sentenze, per prevenire le violenze che inevitabilmente conseguono alle liti ed ai contrasti civili: in tal modo nascono il diritto e la giustizia civile.

Ma la difesa dalle violenze e dai reati veri e propri fa nascere la giustizia penale, con la quale lo Stato sottrae al singolo sia la difesa propria, se non nel caso di immediata necessità, sia il diritto alla vendetta per i torti subiti.

La seconda conseguenza dell’assunzione da parte dello Stato della difesa dell’ordine interno, dopo la formazione di corpi armati di protezione e prevenzione, è la creazione della Legge, cioè lo stabilire in forma preventiva, scritta e conoscibile da parte di tutti, le regole di comportamento reciproco e definire i poteri dello Stato stesso nei confronti del cittadino.

Non voglio occuparmi di tutto questo, perché l’argomento non avrebbe più fine: mi occuperò solo della giustizia penale, in quanto questa costituisce la maggior forma di ingerenza dello Stato nella Libertà del singolo, prevedendo essa non solo la privazione dei beni e della Libertà per l’individuo, ma, in certi casi, addirittura della vita.

La libertà filosofica consiste nell’esercizio della propria volontà, o almeno (se si deve parlare per tutti i sistemi) nell’opinione che si ha di esercitare la propria volontà [allusione alle teorie deterministico-materialiste che andavano diffondendosi, ndr]. La libertà politica consiste nella sicurezza, o almeno nell’opinione che si ha della propria sicurezza. Questa sicurezza non è mai tanto minacciata come nelle accuse pubbliche o private. Dunque dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino.

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Libro XII, cap. I.

 

Principi generali della Giustizia penale

Poiché l’azione dello Stato contro il cittadino colpevole lede necessariamente i suoi diritti naturali, che non gli vengono dallo Stato e dalla Legge, ma dalla propria natura di Uomo e di Essere Pensante (o Spirito), questa azione deve essere limitata da principi generali di garanzia, inviolabili da parte dello Stato, principi che costituiscono il patrimonio più prezioso di una civiltà.

 

  • In dubio, pro reo: l’espressione latina ci indica l’origine antichissima di questo principio: nessuno deve essere condannato se sussistono dubbi sulla sua colpevolezza; è meglio un colpevole in libertà che un innocente in carcere.

La pluralità dei giudici o dei giurati ed i diversi gradi del giudizio sono mezzi per garantire questo principio: è infatti sufficiente che la colpevolezza non risulti evidente a qualche giudicante tra i tanti coinvolti, perché l’accusato sia assolto.

Nei paesi civili, questo principio si esprime anche con l’impossibilità di agire in giudizio contro una persona già assolta, in mancanza di nuove prove (e in taluni paesi anche in questo caso). Non bis in idem (non due volte contro lo stesso) è l’espressione latina che illustra il principio.

Infatti, se una persona è già stata assolta, questo fatto è la prova evidente ed ufficiale che esiste dubbio sulla sua colpevolezza. La possibilità di ricorrere è solo dell’imputato, se condannato, proprio perché deve essere possibile dirimere e superare ogni dubbio prima della definitiva condanna.

Se infatti un accusato viene assolto anche una sola volta su tre, il dubbio di innocenza esiste: pertanto una sola assoluzione fa terminare l’azione contro di lui.

Una recente sentenza della corte costituzionale italiana, (che scrivo con lettere minuscole per esprimere tutto il disprezzo che provo per dei giudici politicanti ed indegni del loro compito, come quelli che hanno espresso questo giudizio), ha annullato una legge che introduceva anche in Italia questo principio, con la motivazione, incredibile, che essa violava il presupposto di parità tra difesa ed accusa. In tal modo, un principio, come quest’ultimo, stabilito in difesa del cittadino, viene usato per difendere l’arbitrio del magistrato. Nessuna parità esiste tra accusatore ed accusato, quando il primo non va in carcere se il secondo viene assolto, e quando il magistrato agisce in giudizio a spese dello Stato e senza rischi, mentre il cittadino agisce a spese proprie ed a proprio rischio. Si verificano in continuazione casi di magistrati che ricorrono due volte consecutive contro sentenze di assoluzione, perseguitando in tal modo, a spese nostre e senza alcuna conseguenza per loro, un cittadino già assolto due volte, costringendolo, se non altro, a dilapidare i propri beni per pagarsi collegi di difesa in tre processi per lo stesso fatto e con le stesse prove, e per il quale potrebbe, la terza volta, essere rimandato in giudizio, se ha la sfortuna di trovare giudicanti sodali dell’accusatore.

 

  • Certezza del diritto: il cittadino deve poter conoscere a priori cosa gli è lecito fare e cosa è proibito; parimenti deve conoscere quale è la pena che consegue dai suoi atti illeciti.

Prima conseguenza di questo principio è la non retroattività della legge, cioè la non legittimità di leggi che comportano punizioni per atti antecedenti alla legge stessa.

Inoltre, ogni cittadino deve essere giudicato in base alle leggi valide per lui, cioè quelle del suo Stato; questo principio, evidente, può essere superato solo contro il legislatore malizioso, che abbia legiferato contro la legge precedente, allo scopo di garantirsi l’impunità per delitti naturali, cioè definiti come tali dalla coscienza universale dell’uomo, ma non contro il cittadino comune, soggetto alle leggi del suo Stato, che non ha alcuna possibilità di sottrarvisi.

 

Questo principio ha pure una seconda, importantissima implicanza: la legge deve essere interpretabile chiaramente da tutti, nel momento in cui viene violata. Cioè, chi viola la legge deve essere in grado di saperlo con certezza: nessuno deve poter violare inconsapevolmente una legge, se non per ignoranza colpevole.

Pertanto non è ammessa la giurisdizione creativa, quella per la quale il giudice condanna degli accusati per interpretazioni della legge mai utilizzate precedentemente, come invece è avvenuto ed avviene in Italia negli ultimi decenni, con reati non previsti esplicitamente dal codice, inventati di sana pianta dai pubblici ministeri e accolti dai collegi giudicanti, tra i quali, ad esempio, il definire furto il reato di bracconaggio o di raccolta non autorizzata di funghi o fiori (cosa usuale tra certi giudici di tendenze ambientaliste, secondo i quali le pene già previste per tali reati sarebbero insufficienti, e quindi vanno aggravate con nuove ipotesi di reato), il voto di scambio, il concorso esterno in associazione mafiosa, tutti reati non previsti dalla legge ed addirittura, negli ultimi due casi, inventati con la loro definizione.

Riporto a questo proposito l’opinione del Beccaria, espressa in vari e significativi passaggi:

La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino.

Nemmeno l’autorità d’interpetrare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. …

Non v’è cosa piú pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. …

Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpetrazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli….

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, §III, §IV.

 

Voto di scambio significa aver promesso qualche cosa (soldi, favori, assunzioni, ecc.) in cambio del voto. Questo presunto reato è stato imputato a vari esponenti politici di centro-destra, specialmente del sud. Prescindendo dal fatto che non si comprende come l’eventuale eletto possa sapere se un dato elettore lo ha votato o meno, visto che la cosa può aver significato solo se gli elettori collusi sono tanti, e quindi non identificabili (si può identificare qualche individuo, mediante segni particolari sulla scheda, ma non il 50% degli elettori), la promessa di qualche cosa in cambio del voto è imputabile a qualsiasi politico che abbia presentato un programma elettorale, in particolare in elezioni locali, dove necessariamente si parla di azioni pratiche, che avvantaggiano o danneggiano qualcuno (non è necessaria, infatti, l’illiceità della cosa promessa, che altrimenti sarebbe già punibile per se stessa). Con questo mezzo si rendono accusabili tutti i politici non in simpatia con la magistratura di sinistra, imperversante in Italia: nessun politico di sinistra (che promettono direttamente soldi, quando promettono aumenti delle pensioni, dei salari ecc.) è stato infatti mai accusato di un tale reato.

Faccio notare, inoltre, che tale ipotesi di reato viola la libertà fondamentale del cittadino di votare chi gli pare e per i motivi che gli paiono, libertà coperta dal segreto del voto. Ipotizzare tale reato è violare esplicitamente tale segreto, che deve necessariamente essere rivelato, per provare il reato stesso o addirittura per formulare l’accusa.

 

Concorso esterno in associazione mafiosa è invece un reato che non prevede la contestazione di alcun atto illecito, che altrimenti sarebbe punito già di per sé, ma semplicemente la conoscenza o frequentazione di persone riconosciute come mafiose, addirittura successivamente ai fatti contestati.

Così ad Andreotti si contestava la conoscenza dei fratelli Salvo, quando questi erano ufficialmente gli esattori erariali in Sicilia (e nessuno li accusava di essere mafiosi); a dell’Utri di aver giocato a pallone con dei giovani, poi divenuti mafiosi, e così via.

In tal modo sono accusabili tutti coloro che sono nati o vissuti in zone dove agisce la mafia, come dell’Utri, o addirittura che avevano conoscenti in tali zone, come Andreotti.

Entrambi questi reati non sono previsti dal codice, ma inventati direttamente dai magistrati, in una funzione legislativa della magistratura semplicemente indecente.

 

Per lo stesso motivo, la legge non dovrebbe prevedere come reati comportamenti non chiaramente descritti, la cui definizione è lasciata all’arbitrio dell’interpretazione del magistrato: abuso d’ufficio, comportamento antisindacale, falso in bilancio sono ad esempio specie di reati non specificati, che rendono possibile a qualsiasi magistrato di accusare qualsiasi amministratore pubblico, amministratore privato od imprenditore per comportamenti inerenti alla loro attività, senza che questi fossero in alcun modo consapevoli della propria colpevolezza al momento del compiersi del cosiddetto reato.

 

Abuso d’ufficio si ha, secondo la definizione della legge, quando un pubblico funzionario provoca, con un suo comportamento, un vantaggio od un danno indebito a qualcuno. Ma qualsiasi atto pubblico provoca vantaggi o danni a qualcuno. Se questi vantaggi o danni siano indebiti è lasciato alla libera interpretazione del magistrato, che ne può abusare.

 

Comportamento antisindacale significa fare qualcosa che danneggi il sindacato, senza che questo qualcosa sia altrimenti definito. In tal modo vengono bollati anche comportamenti nella propria sfera di diritti, se non conformi ai piaceri del sindacato e all’interpretazione del magistrato. E’ l’analogo pseudo-democratico del diritto di lesa maestà. In uno Stato di diritto, ogni azione che non sia espressamene proibita è lecita; in particolare se agisco nel mio diritto, senza che questo mi possa essere vietato in nome di principi fumosi ed interpretabili ad libitum.

Falso in bilancio: questo reato si aveva quando in un bilancio appariva qualche cosa di falso, senza altra specificazione. Ma poiché esistono infiniti modi di stendere un bilancio, parimenti corretto, era sempre possibile contestare questo reato a qualsiasi amministratore avesse firmato un bilancio. Cosicché ogni qualvolta un magistrato reputava di trovare qualche cosa di inesatto in un bilancio aziendale, senza neppur la minima considerazione sulla entità della cifra contestata, poteva procedere contro l’amministratore.

 

Una recente legge che ha specificato il reato di falso in bilancio, utilizzato, per la sua caratteristica di libera interpretabilità, per perseguitare personaggi invisi a certi magistrati, definendone i limiti, è stata bollata e presentata all’opinione pubblica come legge ad personam che abolisce l’esistenza stessa del reato. In realtà la nuova legge definisce che si ha falso solamente se esiste almeno un danneggiato e quantifica percentualmente al bilancio stesso, l’entità minima perché si abbia il falso. Questo reato, infatti, era stato introdotto nel codice penale per proteggere i soci dall’amministratore infedele, e non c’entra nulla con altre specie di reato, quali evasione fiscale, corruzione od altro, punite per conto loro da leggi apposite, e che invece vengono presentate falsamente come cose rese oggi possibili dalla nuova legge. La vecchia legge veniva usata, addirittura dichiaratamente,  da magistrati prevenuti, quando non potevano contestare nulla di più grave contro i loro perseguitati, e per questo essi oggi si dolgono tanto che sia stata loro tolta questa possibilità di arbitrio.

 

Già Montesquieu critica il delitto di lesa maestà, proprio perché non indica chiaramente i comportamenti che costituiscono reato.

Le leggi della Cina stabiliscono che chiunque manchi di rispetto all’imperatore debba essere punito con la morte. Siccome non precisano che cosa sia questa mancanza di rispetto, tutto può offrire un pretesto per togliere la vita a chi si vuole, e sterminare la famiglia che si vuole… Basta che il delitto di lesa maestà sia vago, perché il governo degeneri nel dispotismo.

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Libro XII, cap.VII.

 

  • Terzietà del giudice (il giudice non deve essere personalmente coinvolto nel giudizio): questo è un principio che è andato perfezionandosi nei secoli, fino alla definizione di separazione dei poteri, per i quali colui che porta in giudizio deve essere diverso da colui che giudica. Pertanto sia la funzione di polizia, sia la funzione inquirente, devono essere assolutamente diverse da quella giudicante.

Questo principio comporta un numero rilevante di conseguenze, difficilmente rispettate da Stati dove la cultura liberale non è completamente diffusa, come il nostro. Ad esempio, da noi il cittadino non è in alcun modo difeso da azioni ostili intentategli da magistrati di opinioni politiche od ideologiche manifestamente e dichiaratamente diverse dalle sue, come pure l’azione giudicante e quella inquirente sono commiste e reciprocamente inquinate.

 

  • Predefinizione del giudice (il giudice deve essere definito per legge, prima della messa in stato di accusa). Questo principio (detto anche del giudice naturale) serve a proteggere il cittadino dalle persecuzioni di magistrati malevoli. Non dovrebbe essere il magistrato a scegliersi le proprie vittime, ma l’accusato deve essere giudicato da un giudice definito dalle caratteristiche stesse del reato (geografiche o specifiche). Infatti, non dovrebbe essere ritenuto importante, al fine dell’accertamento della verità, che questo fosse fatto da un giudice o dall’altro (anzi, il solo sospetto che questo sia possibile, dovrebbe rendere nulla un’azione penale, perché presuppone pregiudizio o predisposizione da parte del magistrato), mentre è importante evitare l’azione malevola contro il cittadino.

Anche questo principio è continuamente violato, in modo addirittura plateale. Anzitutto dai pubblici ministeri, i quali, mentre da un canto pretendono di essere trattati a tutti gli effetti come i giudici, con ogni diritto e garanzia di indipendenza ed impunità, dall’altro non rispettano in alcun modo questo presupposto, perseguendo, o meglio perseguitando, cittadini di ogni parte d’Italia e per reati commessi ovunque, cosiccome garba loro. Dalla più lontana procura calabra o lucana, si intentano processi contro personaggi (normalmente famosi) in ogni parte del pianeta!

 

Ma la cosa più indecente è stata vedere, in questi anni, indire una serie di processi, a Milano, contro magistrati romani (il cui giudice naturale sta a Perugia) e contro avvocati romani, per reati commessi a Roma (es. Previti). Il fatto che questo sia stato stigmatizzato successivamente in Corte di Cassazione, non ha salvato Previti, dato che i processi sono sempre più di uno, in modo che l’imputato, in un modo o nell’altro, sempre sia condannato.

La pervicacia con la quale si è difesa la sede di Milano per questi processi, contro la richiesta della difesa di spostamento alla loro sede naturale (Perugia), indica di per sé, senza ombra di dubbio, che si riteneva importante celebrarli di fronte a corti il cui operare fosse già ben noto e controllabile.

Era inoltre importante far sapere ad ogni magistrato d’Italia, che la Procura di Milano può colpire dove e chi vuole, anche magistrati della Cassazione, senza alcun limite di legge, bastandole inventarsi un cavillo qualsiasi per violare principi fondamentali, stabiliti per la certezza del Diritto e della Giustizia: dopo il caso Carnevale, serviva il caso Squillante per avvertire ogni altro magistrato che potesse mettersi sulla sua strada.

In questo caso, ad esempio, si era sostenuto che i reati erano stati pensati a Milano. La cosa più grave è, che nel corso del processo, non si è neppur tentato di dimostrare questo fatto, indimostrabile ed irrilevante di per sé, anche perché un reato esiste quando lo si compie, e non quando lo si pensa (ed anche il non riuscire nel tentativo già ne cambia la natura).

D’altro canto, che rispetto del Diritto e della Giustizia ci si può aspettare da parte di una Procura presso la quale non si rispetta neppure la Legge della Gravità naturale, riuscendo a rompere i dischetti dei computer facendoli cadere da una scrivania, cosa impossibile in qualsiasi altra parte del mondo! E dove si possono tener nascosti non solo alla difesa, ma addirittura ad altri magistrati, fascicoli processuali per più di quindici anni, accampando le scuse più incredibili e, per questo proterve al di là di ogni tollerabilità civile!

Quando si reintrodusse nella legge il principio della possibilità di richiedere la ricusazione del magistrato per motivi di legittima suspicione, principio che era sempre stato nel nostro ordinamento, e che ne era sparito per un errore tecnico, riconosciuto da tutti, si è gridato, come al solito, alla legge ad personam, perché poteva servire alla ricusazione dei giudici milanesi, nei processi contro Previti e Berlusconi (cosa poi non avvenuta). In tale occasione, da parte dei magistrati e dei politici di loro riferimento, si invocò anche, con una spudoratezza addirittura epica, il principio del giudice naturale, per difendere la sede di Milano! Trasformando, in questo modo, per l’ennesima volta, un principio a difesa dell’imputato in uno a suo sfavore, ma addirittura invocandolo in un caso dove questo principio era violato in modo chiarissimo ed evidentissimo!

Nell’idea di Montesquieu, ed addirittura nel diritto romano, vi era anzi il principio che il giudice dovesse essere di gradimento dell’accusato, per garantirgli un giudizio equo:

Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d’accordo con le leggi, si scelga i giudici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta….

[Nell’antica Roma], cosa molto favorevole alla libertà, il pretore nominava i giudici con il consenso delle parti. Il gran numero di ricusazioni che si possono fare oggi in Inghilterra equivalgono press’a poco a questa usanza.

“I nostri antenati non hanno voluto” dice Cicerone, Pro Cluentio, “che un uomo a proposito del quale le parti non si fossero accordate, potesse essere giudice, non soltanto della reputazione di un cittadino, ma nemmeno della minima questione pecuniaria.”

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Lib. XI, capp. VI e XVIII.

 

Torture e pentiti

L’assoluta certezza che deve accompagnare una sentenza di condanna implica anche alcune prescrizioni relativamente alla modalità di acquisizione delle prove.

Non dovrebbero poter essere utilizzate in sede processuale testimonianze o confessioni estorte con torture o minacce o testimonianze di persone che traggano da queste sensibili interessi personali. Infatti queste dichiarazioni sono sempre dubbie, perché possono essere state originate da elementi diversi dalla verità conosciuta.

Elementi di questo tipo possono, al limite, essere utilizzate nel corso delle indagini per rinvenire prove certe della colpevolezza, ma non dovrebbero mai costituire elementi del Giudizio, o, perlomeno, mai elementi unici. Invece abbiamo visto ogni genere di abusi e di sconcezze proprio in questo campo: arresti di persone incensurate eseguiti in piena notte, buttate in carcere e rimesse in libertà solo dopo aver accusato altri incensurati di reati lievi o addirittura formali (finanziamento illecito di partiti); a loro volta costoro erano arrestati e costretti a nuove accuse o confessioni, in una catena che aveva come unico scopo l’abbattimento della parte politica avversa alla propria (ma lo scopo, già di per se stesso indecente, non aggiunge nulla all’indecenza del metodo). Il tutto con il più supremo disprezzo per ogni regola (ad es. violazione continua del segreto istruttorio, senza che mai venisse aperta alcuna indagine al proposito), proprio da parte di chi si arrogava il diritto di togliere la libertà ad una persona, per violazione formale ad altre regole.

Non altrimenti si procedette con l’utilizzo delle cosiddette confessioni dei cosiddetti pentiti. Delinquenti acclarati venivano messi in libertà e ricoperti di denaro, purché confermassero tesi del pubblico ministero, addirittura raccontando il sentito dire del sentito dire. Queste dichiarazioni, rese contro persone incensurate, erano accolte dal tribunale come prova, purché vi fosse concordanza con altre analoghe, quando i sicofanti avevano chiaramente e provatamente avuto tempo e occasione di concordare tra di loro o di conoscere preventivamente le deposizioni l’uno dell’altro. Assassini lasciati liberi hanno continuato ad assassinare, senza che alcuna conseguenza di questo fosse imputata allo sciagurato funzionario colpevole del fatto, che veniva anzi promosso ad incarico superiore e sempre incensato dalla stampa corriva.

In questi casi è accaduto che leggi eccezionali, promulgate allo scopo di combattere una delinquenza dilagante e pericolosissima come quella mafiosa, venissero usate dai pubblici ministeri per colpire non i delinquenti, ma cittadini incensurati, elevando la delinquenza a pubblico accusatore, attraverso le false confessioni e le false accusa. Così che proprio gli autori delle leggi speciali ne furono travolti, in una sorta di doloroso contrappasso, o di meditata vendetta della delinquenza.

Gli infiniti pentiti, mantenuti a nostre spese, invece di fornire informazioni sui propri reati e sui propri complici, come era nelle intenzioni della legge, fornivano informazioni sui reati altrui, ai quali non avevano partecipato e dei quali non potevano sapere di più del comune cittadino. Famosa resta a questo proposito la giustificazione di Buscetta, uno dei primi e più famosi pentiti, che, incalzato dalla difesa di Andreotti, uno dei primi e più famosi accusati, sulle origini delle sue accuse, alla fine sbottò in un “questo lo avevo dedotto dai giornali”, cioè aveva dedotto dalla stampa che Andreotti era un mafioso! E questa testimonianza fu portata in un pubblico processo, assieme ad altre ancora più indecorose, senza che ai pubblici ministeri fosse rotte le ossa a bastonate o, perlomeno fossero presi a calci in culo, come meritavano!

 

Del resto l’usanza di utilizzare i criminali l’un contro l’altro non è nuova in questo Paese! In un libro di un viaggiatore tedesco che attraversava a piedi l’Italia, nel lontano 1802, costui esprime tutta la sua costernazione ed indignazione nel vedere l’uso che si faceva dei pentiti nel Regno delle due Sicilie.

Passavamo in quel momento lungo un carcere, e attraverso le inferriate un tipo ci guardò e ci rivolse la parola. “Quell’uomo ha quaranta omicidi sulla coscienza”, disse l’ufficiale continuando a camminare. Lo guardai: “E’ sperabile che non possano essere dimostrati”. “Altrochè! Almeno per la metà la prova potrebbe essere piena.” Sentii corrermi un brivido per la schiena. “E il governo?” domandai. “Ohimè”, disse sottovoce, “di quell’uomo il governo se ne serve!” A questo punto mi parve di essere caduto nell’inferno. Cose simili le avevo spesso udite; adesso devo addirittura vederle. Amico, se fossi napoletano, sarei tentato di diventare per esasperata onestà un assassino, e incomincerei dal primo ministro. Ma cosa è mai questo governo che tratta a questo modo la vita dei cittadini? Si può pensare a un cumulo maggiore di scellerataggini e di bassezze? “E’ sperabile che adesso avrà la giusta punizione”, dissi al mio amico sconosciuto. “Oh no”, mi rispose, “adesso si trova qui per una piccola insubordinazione, e domattina sarà libero.”

L’amnistia regia ha riempito l’esercito e le province di briganti matricolati. Il re ha assunto i banditi: erano bravi, come diceva il loro nome; li ha ricompensati regalmente, ha dato loro uffici ed onori, e adesso essi esercitano i loro misfatti legalmente, come capi delle province.

Johann Gottfried  Seume, L’Italia a piedi (Passeggiata fino a Siracusa), Lettera XXX.

 

A difesa dell’amministrazione napoletana, dobbiamo dire che in questo caso i briganti si riscattavano rischiando la vita in combattimento contro i loro vecchi compagni. Oggi invece, si godono soldi e libertà senza alcun rischio, vendendosi come falsi testimoni a magistrati imbevuti di pregiudizio ed odio politico, alla ricerca di impossibili dimostrazioni alle loro farneticazioni deliranti. Questo, naturalmente, se le accuse vanno nella giusta direzione. Per coloro che si arrischiano ad accusare controcorrente, scattano immediatamente le manette (in questo caso erano infatti uomini liberi, e non delinquenti riconosciuti e condannati) e vengono fatti sparire fino a quando non tacciono definitivamente, ben compresi di quello che rischiano. Allora non si celebrano più nemmeno i processi contro di loro, per falsa testimonianza, visto che sarebbe imbarazzante che potessero difendersi in pubblico. Così è accaduto per Marini, incarcerato lo stesso giorno della sua testimonianza dinnanzi ad una commissione parlamentare, così per Scaramella, arrestato non appena rientrato in Italia per le feste di Natale. Quando finalmente tornano liberi, spariscono nell’assoluto silenzio di tutti; d’altro canto, chi si muove contro la sinistra viene rimosso ed azzittito immediatamente, sia Ufficiale della Guardia di Finanza, sia Pubblico Ministero, sia Giudice. L’imprudenza è punita severamente, in questo Paese e da questa magistratura!

 

Fine ultimo della Giustizia penale

Ho già avuto modo di dire che, in una visione liberale, il fine della Giustizia penale non può essere quello di punire né, tantomeno, quello di educare. Infatti i poteri dello Stato nei confronti dei cittadini non possono essere superiori o diversi da quelli ad esso conferiti dai cittadini che ne fanno parte. Lo Stato non è né una divinità, né un detentore di diritti propri superiori da quelli dei propri governati: un tale concetto poteva essere creduto quando si attribuiva allo Stato un particolare mandato divino, o quando si attribuì allo Stato una individualità spirituale propria, come nell’hegelianesimo deteriore delle dittature di massa dal ‘900. I risultati di queste concezioni furono così disastrosi, che per essi si può applicare il detto evangelico: Conoscerete ogni albero dai suoi frutti.

In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi travestiti da pecore; ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li conoscerete. Si coglie forse dell’uva dalle spine, o dei fichi dai triboli? Così ogni albero buono dà buoni frutti, ed ogni albero cattivo dà frutti cattivi. Non può l’albero buono dar frutti cattivi, né l’albero cattivo dar frutti buoni. Ogni pianta che non porta buon frutto vien tagliata e gettata nel fuoco. Voi li riconoscerete dunque dai loro frutti.

Matteo, 7,15-21

 

In una concezione liberale lo Stato non è che una organizzazione burocratica al servizio del cittadino, che ha ricevuto da questi i propri mandati.

Poiché nessun uomo ha il diritto di punire o coercere la mente di un altro uomo, altrettanto non lo può lo Stato. Il diritto che lo Stato ha nei confronti dei colpevoli è quello di autodifesa, proprio di ogni uomo nei confronti di chi leda i suoi diritti naturali.

Da questo primitivo diritto discende il diritto-dovere dello Stato di colpire i criminali e gli individui pericolosi, al duplice scopo di metterli in condizioni di non nuocere e di dissuadere altri dall’imitarli.

In questo, ed in poco altro, concordo pienamente con Schopenhauer, che dice:

Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la deduzione fatta più sopra, esiste invece proprietà anche nello stato di natura, con pieni diritti naturali, ossia morali; la quale non può senza ingiustizia venire offesa, e senza ingiustizia può esser difesa fino all’estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non c’è diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente sulla legge positiva, la quale prima dell’atto compiuto ha sancito per questo una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe prevaler su tutti gli eventuali motivi di quell’atto. Codesta legge positiva si deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cittadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al cui adempimento in ogni circostanza, ossia all’esecuzione della pena da una parte e al sofferimento di essa dall’altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire imposta. Conseguentemente l’immediato fine della pena nel singolo caso è adempimento della legge come d’un contratto. Ma scopo unico della legge è il trattenere, col timore, dalla violazione degli altrui diritti: poi che appunto, perché ciascuno sia protetto contro l’ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, i pesi del suo mantenimento assumendo su di sé. La legge adunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzialmente rivolte al futuro, non al passato. Ciò distingue pena da vendetta, la quale ultima è motivata esclusivamente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quanto tale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare al futuro, per un’ingiustizia commessa, è vendetta, e non può avere altro fine, se non confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un male altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e crudeltà, né si può eticamente giustificare.

L’ingiustizia, che altri compie verso me, non mi dà minimamente il diritto di commettere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male, senz’altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmente né in altro modo in virtù di qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus talionis, eretto a principio indipendente ed a finalità ultima del diritto penale, è vuoto di senso…

E nondimeno la viene ancor fuori negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni maniera di frasi pompose, che si riducono a una vuota filastrocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzo della pena espiato, neutralizzato, cancellato, e così via. Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice e compensatore in senso puramente morale, ed i misfatti di un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegli imporre così espiazione per ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima presunzione; onde il detto biblico: “Mia è la vendetta, esclama il Signore, e voglio io compensare”. Ha bensì l’uomo il diritto di provvedere alla sicurezza della società; ma ciò può accadere solo mediante interdizione di tutti quegli atti che indica la parola “criminale”, per impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le minacciate pene; la qual minaccia può avere efficacia sol con l’esecuzione, quando il caso sia, malgrado l’interdizione, avvenuto. Che perciò scopo della punizione o più precisamente della legge punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un reato, è una verità così universalmente riconosciuta, anzi di per se stessa luminosa, che in Inghilterra fu perfino già espressa nell’antica formula d’accusa (indictment), di cui oggi ancora si serve nei processi criminali l’avvocato della corona; la quale termina: “if this be proved, you, the said N. N., ought to be punished with pains of law, to deter others from the like crimes, in ali time coming” (“Se questo è provato, allora dovrete voi, il nominato N.N., subire la pena legale, perché siano trattenuti altri dal commettere simili delitti in tutto il tempo futuro”).

Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla vendetta; e la pena ha questa finalità sol quando viene applicata come esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo siffattamente annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso futuro, dà alla legge la forza d’intimidazione in cui sta appunto la sua finalità…

La teoria della pena qui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità sostanzialmente un pensiero tutt’altro che nuovo…La si trova d’altronde già nei detti dei filosofi antichi: Platone l’espone chiaramente nel Protagora, e anche nel Gorgia, e finalmente nell’undecimo libro delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria di tutte le pene nelle brevi parole: “Nemo prudens punit, quia peccatum est; sed ne peccetur” (De Ira, I, 16).

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro VI, § 62.

 

Schopenhauer sostiene unicamente la funzione deterrente della pena.A me sembra invece, che, oltre a questa, funzione ugualmente importante sia quella di allontanare il colpevole dalla possibilità di compiere nuovi reati, con l’incarcerazione, la detenzione o l’esilio. In questo concordo con Cesare Beccaria, che nel suo Dei Delitti e delle pene dice:

Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi.

Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, § II e § XII.

 

Questo comporta che una evidente incongruenza del nostro sistema giudiziario, che manda assolti gli incapaci permanenti di intendere e di volere, anche macchiatisi di orrendi delitti, non ha alcun fondamento, né in un senso, né nell’altro del significato della pena. Infatti, non essendo lo scopo della pena la punizione, non ha senso assolvere chi non ha colpa perché pazzo; ha invece senso incarcerarlo o rinchiuderlo in quanto pericoloso, ed altrettanto in quanto fonte di emulazione per altri pazzi come lui, invogliati ad imitarlo per l’impunità sperata.

L’incapacità di intendere e di volere deve essere motivo di assoluzione solo se momentanea e pressoché irripetibile: una febbre violenta, l’effetto di droghe o medicinali sussunti casualmente e senza colpa, ecc.

 

 Tare costitutive del sistema giudiziario italiano

Il sistema giudiziario del nostro Paese, del cui intollerabile malfunzionamento siamo tutti incolpevoli testimoni, è così gravemente inficiato da tare costitutive ed acquisite, da rendere pressoché impossibile a qualsiasi governo di intervenire alla sua correzione.

Non solo abbiamo un sistema totalmente inefficiente, per i tempi incredibilmente lunghi dei suoi giudizi, non giustificati da alcuna mancanza di mezzi o personale, come talora si giustificano i magistrati, quando si confronta il numero degli addetti italiani con quello degli altri paesi vicini, ma oramai divenuto così corrotto e sfrontato da costituire il pericolo più grave per la libertà e la democrazia del Paese.

Il cittadino italiano è trattato dal magistrato come una entità priva di qualsiasi diritto, soggetto ad ogni possibile violazione dei suoi diritti costituzionali, della sua sfera privata od addirittura intima, per ogni balzana idea passi per la testa dell’ultimo dei procuratori nazionali.

 

  • Abbiamo decine di migliaia di cittadini (forse centomila ogni anno) intercettati e spiati con continuità, per reati addirittura risibili e, nella maggior parte dei casi, non loro, i cui segreti più delicati vengono poi affidati alle buone grazie di un sistema informativo sempre più corrotto a sua volta da questa pratica incivile. La scelta dell’arbitro delle partite di calcio, l’assunzione della valletta televisiva, la concessione delle proprie grazie da parte di giovani maggiorate al politico amico, sono tutti motivi per i quali intere procure di città infestate da malavitosi di ogni genere e nelle quali la quasi totalità delle attività economiche è soggetta a pagamento di tangenti alla delinquenza locale, si mobilitano per mesi e mesi, se non per anni, a intercettare migliaia di conversazioni private tra cittadini incensurati e consegnarle poi ai giornali amici. Senza poi alla fine cavare un ragno dal buco in fase di processi e sentenze, vista la futilità degli argomenti ed il livello di insussistenza delle prove raccolte.
  • Sembra un poco calata l’abitudine di utilizzare come prova di colpevolezza di cittadini incensurati dichiarazioni di delinquenti prezzolati, non supportate da alcuna altro riscontro materiale, se non la concordanza di simili testimonianze di simili testimoni, che hanno avuto ogni possibilità di concordare le loro versioni, anche per l’assoluta genericità delle stesse. Ma nessun provvedimento organico può impedire il riprendere di questa pratica aberrante e tuttora difesa dalla nostra magistratura.
  • Qualsiasi tentativo di intervenire contro questo sistema a dir poco delinquenziale di gestione della giustizia, cozza contro l’evidente ricatto di azioni giudiziarie, condotte con l’uso spregiudicato delle intercettazioni e delle loro interpretazioni malevole e strumentali, contro quei politici che provano ad intraprendere un’azione così pericolosa: ogni decisione contrastata dai giudici viene regolarmente bocciata da una classe politica di ricattati in permanenza.
  • Anche ogni critica al sistema è soggetta all’intervento liberticida della magistratura, che colpisce con multe astronomiche, assegnate come indennizzo ai giudici criticati, o addirittura col carcere il criticante impenitente (vedi i casi di Sgarbi, Feltri, Jannuzzi e molti altri, azzittiti da ripetute sentenze di condanna per la loro azione critica). In parole povere, la magistratura ci sta togliendo anche la libertà di parola, anche se la Costituzione prevede esplicitamente questo diritto come fondamentale e sacro, mentre non fa motto su un preteso diritto del magistrato a non essere criticato. Il magistrato svolge una funzione pubblica, e come tale deve essere soggetto a libera critica da parte di qualsiasi cittadino, così come tutti gli altri poteri pubblici, dal Governo al Parlamento.

 

 

Le cause di un simile disastro

Le cause di questo vero e proprio disastro che colpisce la nostra Giustizia sono principalmente tre, con i conseguenti effetti che da queste derivano.

 

  • Confusione dei poteri
  • Irresponsabilità del magistrato
  • Autogoverno della magistratura

 

  • Confusione dei poteri: gli Stati moderni dovrebbero reggersi sul principio, definito da Montesquieu, della separazione tra i tre poteri fondamentali, quello legislativo (il Parlamento), quello esecutivo (il Governo) e quello giudiziario (la Magistratura giudicante). In parole povere, chi fa le leggi, cioè le regole generali cui tutti si devono sottomettere nelle loro azioni, deve essere diverso da chi governa, cioè prende i provvedimenti singoli e le decisioni con valore momentaneo e determinato, ed alla fine da chi deve giudicare se qualcuno ha violato le leggi compiendo singole azioni.

L’esempio migliore di separazione dei poteri lo si trova nel sistema americano, dove il Presidente, capo dell’esecutivo, è eletto direttamente dal popolo, e non dipende dal Parlamento.

In Italia esiste un sistema nel quale i poteri sono così confusi e commisti, da far temere che chi lo ha disegnato non conoscesse neppure il principio generale della separazione.

Questa confusione è il motivo principale del malfunzionamento generale del nostro sistema Stato, ed anche della Magistratura in particolare.

Il potere esecutivo (Governo) risulta il meno fortunato dei tre, essendo dipendente in tutto dal potere Legislativo, che gli accorda o gli nega la Fiducia e che pretende di gestire come leggi gli atti esecutivi, come il bilancio dello Stato (inemendabile secondo la Costituzione, e truffaldinamente sostituito dalla Legge Finanziaria), e le cosiddette leggine, cioè i provvedimenti di spesa.

Parimenti, altre parti del potere esecutivo, quella inquirente ed, in parte, quella della gestione delle carceri, è stata conglobata nel potere Giudiziario, compiendo un vero capolavoro di distruzione della struttura logica del Sistema, secondo la quale chi porta in giudizio deve essere diverso da chi giudica. In ogni altro Paese civile il potere inquirente è gestito dall’esecutivo, o direttamente, come in Francia, o costituendosi come potere elettivo separato, come negli Stati Uniti.

Il Giudice effettua azione di controllo sul potere inquirente, onde evitarne gli abusi: ma nessun potere di controllo può esercitarsi, se il controllo coincide con l’azione esercitata.

Il magistrato non è un miglior difensore dei diritti del cittadino rispetto al poliziotto: è la diversa funzione che ne accentua la caratteristica. Il poliziotto sente come suo precipuo dovere la lotta senza quartiere alla criminalità o all’illegalità; il magistrato di controllo sente suo compito la difesa dei diritti del cittadino espressa dalla liceità delle forme di indagine e del rispetto delle garanzie individuali. Ma se il magistrato deve compiere le indagini, sarà questa sua funzione che prevarrà sull’altra, ed il risultato sarà la scomparsa di ogni tutela dei diritti della persona indagata, e non solo di quella.

Non importa che il magistrato che indaga sia controllato da un altro magistrato: l’uguaglianza della categoria professionale, oltre al possibile scambio dei ruoli, li pone implicitamente in posizione di collaborazione o di sudditanza psicologica, tanto più che l’organo di controllo della carriera del magistrato (CSM), dipende nella sua formazione dai voti sia dei magistrati inquirenti che da quelli giudicanti. Il risultato di questo stato di cose, accentuato dall’aver posto addirittura la polizia agli ordini della magistratura, cosa aberrante da ogni punto di vista, ha portato a quelle condizioni di assenza di ogni garanzia per il cittadino che abbiamo esaminato più sopra.

 

La polizia, nei paesi civili, è chiamata a rispondere degli eventuali abusi commessi: non così il magistrato in Italia, giudicato al massimo da suoi colleghi, eletti da lui stesso. Avendo affidato al magistrato i compiti del poliziotto abbiamo ottenuto il bel risultato di avere un poliziotto-magistrato che può commettere ogni genere di abuso sicuro della massima impunità (salvo quando la sua azione non coincide con la posizione politica del CSM: in tal caso la punizione è immediata ed esemplare).

 

Questa è l’opinione di Montesquieu, il padre dello Stato liberale moderno, sull’argomento:

Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.

Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati.

…a Venezia, al Gran Consiglio spetta la legislazione; ai pregadi l’esecuzione; alle quarantie, il potere giudiziario. Tuttavia il male è che questi tribunali sono formati da magistrati dello stesso corpo, il che viene a formare un medesimo potere.

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Libro XI, cap. VI.

 

  • Irresponsabilità del magistrato: la possibilità di un giudizio veramente imparziale ha reso usuale concedere al Giudice la condizione di non dover rispondere del giudizio emesso, onde proteggerlo da eventuali vendette di altri poteri. Questa condizione è nata come ulteriore difesa del cittadino giudicato, permettendo l’autonomia del potere giudicante da quello inquirente, o da quello esecutivo, che desiderasse la condanna dei suoi oppositori. Il contrario avviene quando irresponsabile diviene il potere inquirente, che non risponde più degli abusi eventualmente commessi a danno del cittadino. In questo caso, una garanzia per il cittadino si trasforma in quella per il suo aguzzino. Così è in Italia.

In aggiunta a questo, si è inventata, a garanzia del magistrato, l’automaticità dell’avanzamento in carriera, che garantisce non il cittadino, ma la vera e propria irresponsabilità, nel senso deteriore del termine, del magistrato, non più legato a concetti di merito, capacità, onestà intellettuale, risultati ottenuti, ma solo a quella della assoluta fedeltà al suo CSM, da lui eletto a sua difesa.

In tal modo si è coltivata una classe di magistrati incapace e presuntuosa, petulante ed arrogante, come sempre succede per le categorie di persone dove merito e capacità non influiscono sull’avanzamento in grado.

L’irresponsabilità dovrebbe riguardare solamente la funzione giudicante, ed a quella si dovrebbe accedere solamente dopo aver dato prova del proprio equilibrio e capacità. Invece da noi si è irresponsabili non appena assunti per concorso, e da allora si detiene ad libitum un potere terribile nei confronti di ogni cittadino, che può essere rovinato nel vero senso della parola da un magistrato malevolo, che nulla pagherà per la sua azione, potendo condurre in giudizio il cittadino per tre volte di fila, nonostante ogni assoluzione, dopo averlo rovinato economicamente con la pubblicazione di intercettazioni non comprovanti reati, ma compromettenti sul piano affettivo o professionale, con il blocco od il sequestro preventivo dei beni e l’impossibilità procurata a condurre i propri affari, se non bastassero le spese processuali. L’eventuale assoluzione nei tre ordini di giudizio non riporterebbe il cittadino nella posizione di partenza, né gli restituirebbe la vita sprecata, né porterebbe il magistrato incapace od in malafede a rispondere del mal fatto.

 

  • Autogoverno della magistratura: questo punto è stata la conseguenza di un vero e proprio colpo di Stato compiuto dalla magistratura, con la complicità di una classe politica corrotta e perciò ricattabile. Per permettere l’esistenza di una Magistratura indipendente, la Costituzione previde un particolare organo, il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), che fungesse da controllo sulla Magistratura stessa: infatti, in un Paese civile, nessun potere dello Stato può esercitarsi senza controllo o responsabilità. I poteri conferiti al CSM, e minuziosamente elencati dalla Costituzione, sono tutti poteri nei confronti della Magistratura, e riguardano la carriera dei magistrati; nessun potere ha invece il CSM nei riguardi di entità esterne alla Magistratura. Questo fatto indica senza ombra di dubbio che la funzione del CSM è quella di controllo dell’azione dei magistrati, e non quella di alcun altro organo o funzione statale. Inoltre, l’articolo 110 della Costituzione indica che tutte ciò che non compete al CSM (e ciò che gli compete è espressamente elencato), è responsabilità del Ministro della giustizia, dove il termine servizi utilizzato dovrebbe, secondo buon senso, riferirsi ad ogni aspetto organizzativo, visto che questi NON competono sicuramente al CSM, né ai giudici stessi, né, al di là di questi due articoli, si fa altro riferimento a competenze organizzative di altra natura.

 

Art. 105. Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.

Art. 110. Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

 

Al contrario, il CSM, malgrado la strenua opposizione portata contro questo da un Presidente della Repubblica coraggioso ed onesto, l’on. Cossiga, che giunse a mandare in Consiglio la forza pubblica per impedirne gli abusi, si è attribuito:

 

  • la funzione di difesa della Magistratura contro gli altri poteri dello Stato ed addirittura contro le parti sociali o singole persone;
  • la funzione di intervento contro il Parlamento in fase di legislazione riguardante la magistratura;
  • la funzione di chiarimento ai magistrati dell’interpretazione di norme di legge;
  • la funzione di un cosiddetto autogoverno della Magistratura.

 

Tutti questi poteri o funzioni, non essendo stati attribuiti dalla legge, non possono essere auto conferiti dall’organo stesso, e tale azione non può essere giudicata che un atto eversivo e un attentato alla Costituzione stessa.

In tal modo, un organo posto dalla Costituzione a presidio dei diritti del Cittadino contro eventuali abusi del magistrato (ecco l’azione disciplinare assegnata al CSM non contro il primo, ma contro il secondo), si autoproclama difensore corporativo del magistrato contro il cittadino, al quale non resta altro difensore che il mugugno silenzioso, visto che se rumoroso può venir colpito da sanzioni pesantissime (per oltraggio, attentato, calunnia ecc.), né l’indipendenza della Magistratura dal potere politico permette vi siano altri difensori.

Inoltre il CSM interpreta l’articolo 110 non come l’attribuzione dell’incarico al Ministro dell’organizzazione della Giustizia, ma come conferimento di un obbligo a fornire ai magistrati tutti i servizi da loro richiesti (compresi quelli igienici): Servizio alla giustizia viene dal CSM interpretato come Servizio alla Magistratura, la quale si autogoverna ed è servita dal Ministro a piè di lista.

 

L’errore commesso dai costituenti fu quello di formare prevalentemente il Consiglio con membri eletti dai magistrati stessi, cioè da coloro che dovevano esserne controllati. Ora, è impossibile che un organo eletto da una categoria, la possa convenientemente controllare. Ed in effetti il CSM si è trasformato esattamente nel contrario di ciò che doveva essere.

 

Il risultato di tutto ciò è l’incredibile disservizio che riguarda tutto ciò che è giustizia in Italia.

Il governo degli incapaci e dei corrotti non è buono a nulla, salvo ad aumentare incapacità e corruzione (intendo con corruzione lo sfacelo intellettuale e di costume, senza coinvolgere aspetti monetari o compensativi di altro genere).

 

Sempre Montesquieu, ben conscio dei pericoli per la libertà costituiti da una magistratura giudicante potente, sostiene, sulla base degli usi della Repubblica Romana, ma anche, ai suoi tempi, della Costituzione inglese, quello che tutt’oggi, nel mondo anglosassone, è la giuria popolare:

Il potere giudiziario non deve essere affidato a un senato permanente, ma deve essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell’anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto richiede la necessità.

In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato ad un certo stato né ad una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati.

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Libro XI, cap. VI.

 

Qualche possibile correzione

Illustro ora quelle che mi sembrano possibili correzioni a questo stato di cose:

  • funzione separata della Pubblica Accusa
  • riforma del Consiglio Superiore della Magistratura
  • istituzione di una Magistratura indipendente di controllo della Pubblica Accusa
  • obbligatorietà dei tempi delle indagini e del dibattimento.

 

Il primo punto è quello da tutti identificato come separazione delle carriere, cioè con l’istituzione di un ruolo dei pubblici ministeri differente e separato da quello dei giudici. Si tratta di una riforma indispensabile, anche alla luce del fatto che siamo l’unico Paese dove Magistratura inquirente e giudicante sono unificate, e dove la inquirente agisce senza alcun controllo né responsabilità.

 

Il secondo punto dovrebbe restituire al CSM quel ruolo di controllo dell’azione della Magistratura che oggi esso ha completamente perduto. A tal fine si rende necessario eliminare la caratteristica di eleggibilità del CSM da parte dei Magistrati. Un organo di controllo non può essere eletto dai controllati, ma deve esserne assolutamente indipendente. Poiché il CSM deve essere parimenti indipendente dal potere politico, e quindi non ne deve essere nominato, la sua composizione dovrebbe risultare un fatto tecnico, definito dalla legge. Ad esempio, ne potrebbero far parte i magistrati anziani, negli ultimi due anni prima della pensione, o gli ex Presidenti della Repubblica, o gli ex Ministri guardasigilli, o tutte queste cose insieme, ecc. Non dimenticando congrue rappresentanze degli avvocati penali e civili e del mondo accademico, sempre possibilmente scelte con metodi descritti dalla legge, evitando discrezionalità o competizioni elettorali.

 

Parallelamente alla riforma del CSM, e magari nell’ambito della stessa, andrebbe istituita una Magistratura indipendente di controllo della Pubblica Accusa, con il compito di difendere i diritti dei cittadini da azioni illecite o proterve. In tal modo si eliminerebbe l’intollerabile impunità di cui oggi gode chi ha il potere di distruggere la vita di un cittadino, prima della sua condanna. Tale magistratura non va infatti confusa con gli attuali gradi di giudizio, poiché la sua azione sarebbe contro il magistrato colpevole od incapace, e non di semplice annullamento dei suoi atti: multe, condanne, retrocessioni o espulsioni dall’Ordine dovrebbero essere poteri di questa Magistratura di controllo, che agirebbe in giudizio contro il Magistrato, o per iniziativa sua propria o su richiesta del cittadino ingiustamente perseguitato.

 

Riduzione forzata dei tempi di indagine e di giudizio dovrebbe essere il rimedio contro i tempi intollerabilmente lunghi della giustizia. Questo provvedimento consisterebbe nel porre dei termini di tempo alle azioni del Magistrato, obbligatori per lui, pena sanzioni. Ad esempio, dopo il tempo previsto per le indagini, il PM dovrebbe consegnare gli atti ed indire il processo, non semplicemente scarcerare l’imputato e prendersi tutto il tempo che vuole. Qui va chiarito che se un PM non riesce a provare la colpevolezza dell’imputato in un tempo ragionevole e con una quantità di carta effettivamente leggibile, significa che non vi riuscirà neppure in dieci anni e con milioni di pagine, come purtroppo avviene oggi. Le nostre carceri sono già stracolme di imputati, e non c’è bisogno di condannarne alcuni senza prove, perché sono già sufficienti gli altri, la cui colpevolezza è chiara, per riempirle.

Così non hanno senso i processi che durano anni, al termine dei quali le giurie neppure ricordano cosa si è detto due o tre anni prima: se l’Accusa non riesce a dimostrare la colpevolezza con tre prove, ed in trenta giorni, non riuscirà a farlo con tremila, ed in trent’anni, poiché significa che non ha in realtà prove convincenti, e cerca si sopperirvi con la lunghezza del dibattimento e l’infinità degli indizi.

Naturalmente i termini di tempo dovrebbero essere diversi a seconda della gravità delle accuse, ma sempre contenuti nell’ambito del ragionevole.

 

Oggi vi sono certi magistrati che amano intraprendere inchieste lunghissime e complicatissime, poiché essi reputano di non dover difendere la società dai malviventi, ma di sovvertirla in base alle loro opinioni politiche. Pertanto si interessano, ad esempio, di argomenti economici, sui quali non hanno alcuna preparazione culturale e professionale, oppure di temi politici, con la complicazione che questi comportano, e poiché non hanno alcuna idea di come procedere, adottano il sistema delle intercettazioni generalizzate, in cui ascoltano per mesi conversazioni private di centinaia di cittadini. In mezzo a queste sarà sempre possibile estrapolare qualche frase compromettente, se non penalmente, almeno privatamente, che, consegnata ai giornali permetterà al magistrato di atteggiarsi a vittima se i suoi sforzi accusatorii non risultino convincenti. Dobbiamo poi segnalare che un magistrato che ha condotto un’indagine di anni, con migliaia di intercettazioni e milioni di soldi gettati al vento, non vorrà mai riconoscere di non aver trovato niente, e si attaccherà a qualsiasi parola incauta per lanciare accuse pesantissime che giustifichino la pesantezza dell’indagine. Abbiamo visto queste cose e ne continueremo a vedere, se non verranno presi provvedimenti limitativi dell’arbitrio di personaggi a dir poco incoscienti, che rincorrono le fole mentre le loro città sono vessate dalla malavita e dall’immondezza.

 

Altri punti su cui intervenire

  • Obbligatorietà dell’azione penale: in Italia si dice che l’azione penale è obbligatoria, cioè che il magistrato deve intervenire ogni volta che ha notizia di reato. In realtà questo principio serve ai magistrati, che lo sostengono ad oltranza, a fare esattamente il contrario, ed a intervenire dove e quando desiderano, senza controllo od obbligo alcuni. In alternativa a questa obbligatorietà, si propone generalmente quella che si chiama politica dell’azione penale, cioè una definizione dall’alto di quali dovrebbero essere i reti da perseguire maggiormente, e quali quelli su cui magari soprassedere, poiché non vi sono tempo e risorse per tutti.

A definire la politica potrebbe essere il Ministro, il Parlamento o il capo della Procura. In tal modo i singoli Procuratori non avrebbero le mani libere di fare quel che vogliono. In realtà il principio dell’obbligatorietà sembrerebbe essere quello che offre maggiori garanzie, se esso fosse effettivo.

Infatti non esiste alcun obbligo se questo non è controllato e sanzionato da nessuno, così come avviene oggi: nessuno interviene contro il magistrato che non intraprende l’azione dovuta.

Noi vediamo ogni giorno compiersi reati nelle strade (parlo di blocchi stradali, violenze ecc.) che non sono mai sanzionati o perseguiti se commessi da movimenti riconducibili alla sinistra (che caso!). A Napoli sono anni che non si può aprire una discarica o costruire un inceneritore, ma la magistratura della città non si accorge mai di nulla.

Così è avvenuto in val di Susa, per la TAV, e così per decine di anni per blocchi stradali e picchetti sindacali.

Allora, l’obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe essere garantita da azione penale contro il magistrato che non agisce contro chi viola il codice in modo così plateale.

In modo analogo, le procure che spiano migliaia di italiani per sapere come viene assunta una valletta, non si spiano tra di loro per scoprire come mai le intercettazioni finiscono sempre agli stessi due giornali nazionali specializzati sull’argomento.

 

  • Sottrazione del processo alle procure che violino il segreto: è ormai fatto normale che il segreto istruttorio venga continuamente violato, e così la intimità delle persone coinvolte. A questi fatti, mai ha fatto seguito una indagine seria, da parte della Magistratura: basterebbe un decimo delle intercettazioni con cui sono stati spiati gli arbitri, per cogliere in fallo magistrati o funzionari infedeli. Ma questo non interessa, anzi, si sospetta (!) sia addirittura voluto. Un rimedio semplice, e giusto, sarebbe il sottrarre immediatamente ad una Procura l’indagine, al verificarsi di tali fatti, per passarla ad un’altra. Sarebbe questo un incentivo a stare più attenti. D’altro canto, una Procura dove avvengono fatti del genere, non può dirsi qualificata a garantire il rispetto degli indagati e, soprattutto, l’imparzialità che si vorrebbe da un funzionario di Giustizia: il passare carte processuali alla stampa, indica anzi un atteggiamento ingiustamente malevolo e pregiudiziale, che non consente equilibrio di giudizio e chiarezza di visione.

A Milano, da dove infiniti fascicoli sono arrivati a Corriere e Repubblica, nessuna indiscrezione si è mai avuta sul famoso fascicolo tenuto nascosto dai Pubblici Ministeri, nei processi contro Previti e Berlusconi, malgrado le richieste della difesa e dei magistrati di ispezione; parimenti nulla è trapelato del modo utilizzato in tali sedi per rompere i dischetti dei computer, e tanto meno sul loro contenuto. Questo per dimostrare che quando si vuole mantenere un segreto, si può.

 

Motivi di tanta animosità

Ci si può chiedere da dove derivi tanta mia animosità contro i Magistrati politicizzati e contro quelli che utilizzano a sproposito ed in modo incontrollato del loro potere sul cittadino, con intercettazioni, incarcerazioni preventive, sequestri di beni ecc.

Non ho particolari simpatie per le classi politiche e burocratiche che ci governano, e pertanto potrei vedere, come molti italiani, con simpatia una azione anche violenta della magistratura contro questi ladroni e sfruttatori.

Ma non credo proprio che questa sia la strada corretta ed efficace per correggere un sistema distorto come quello italiano oggi. Le gravi carenze del sistema Italia derivano, come già detto, da una cattiva costruzione istituzionale, di cui mi riservo di parlare più diffusamente nel prossimo capitolo, più che da una naturale disonestà dei politici e dei burocrati. Di questa cattiva costruzione e della confusione dei poteri conseguente, soffre anche il nostro ordinamento giudiziario. Non può quindi venire da questo il rimedio a quello.

 

Inoltre io reputo che il massimo pericolo che minaccia la libertà dei cittadini nei decenni a venire sta nella sempre più reale possibilità tecnica di controllare ogni mossa del singolo cittadino da parte delle autorità: diverremo tutti controllati e ricattati da ogni singolo funzionario, se non ci rendiamo conto che l’uso della tecnologia a scopi spionistici sulla società e da bandire e proibire come il massimo dei pericoli.

Oggi siamo spiati dai comuni, sulla strada, allo scopo di rimpinguare i bilanci comunali; dal fisco, che si impadronisce di sempre maggiori poteri di controllo sul cittadino e sui suoi beni, per arricchire la casta che ci domina; dalla magistratura, che utilizza sistemi spionistici di massa per perseguire fini ideologici (come risanare il sistema di scelta degli arbitri, desiderio originato da troppi ascolti dei vari processi del lunedì, martedì, mercoledì ecc. trasmessi dalla nostra televisione).

Notate che nessuno di questi strumenti generalizzati di informazione e spionaggio è utilizzato contro la delinquenza organizzata, ma tutti contro il normale cittadino impegnato giorno per giorno a guadagnarsi la vita.

Col progresso della tecnologia, i funzionari addetti al sistema potranno sapere in ogni momento dove siamo e cosa facciamo individualmente, colpirci e ricattarci come e quando vorranno, perché il maggior pericolo per la Libertà, come sosteneva J.Stuard Mill, non è mai venuto dai predoni o dai tiranni, ma dai governi autoritari, sorretti dal favore della maggioranza, pasturata con donazioni occasionali ed eccitata dalle cacce all’uomo demagogiche ed ideologiche.

Nel frattempo, costoro ed i loro Garanti, col codazzo di giornalisti compiacenti, eccitano gli animi contro le telecamere di sorveglianza degli edifici privati (banche ed industrie), che violerebbero la privacy dei passanti: ma nessun male giunge al cittadino da questi oggetti, che servono effettivamente solo contro i delinquenti, mentre a nulla servono contro il cittadino onesto. Nello stesso modo, le industrie private sono state gravate di ogni genere di costi e procedure insensate, per garantire una finta privacy, mentre le vere violazioni alla Libertà ed alla riservatezza ci colpiscono impunemente da parte del potere pubblico, che le rafforza ogni giorno di più.

 

Una proposta organica.

Fino ad ora abbiamo dovuto criticare le pesantissime violazioni a danno dei diritti dei cittadini da parte di taluni magistrati. Sembrerebbe quindi che, per lo meno, si dovesse in Italia godere di un sistema giudiziario inflessibile, che, se non garantisce appieno la libertà del cittadino, ne garantisce almeno la sicurezza. Invece, al contrario, viviamo in un Paese nel quale i cittadini che si devono lamentare di violazioni ai loro diritti sono per lo più incensurati, politici, imprenditori o giornalisti. Spacciatori, lenoni, grassatori e malviventi in genere sono invece del tutto tranquilli, a tal punto che la fama di tanto bengodi ha raggiunto le lontane plaghe della Romania, provocando la partenza in massa dei delinquenti locali per raggiungere le nostre ridenti località dove svolgere in maggior sicurezza la loro attività criminosa.

Come mai questo? Il fatto è che non appena i politici incrudeliscono provvedimenti o pene per colpire la delinquenza, subito alcuni Magistrati  utilizzano le nuove leggi contro i cittadini incensurati di altro credo politico o di altra classe sociale; quando invece prevale l’ala garantista della legge, ecco allora uscire di carcere mafiosi ed assassini, e rimanere direttamente liberi ladri e spacciatori.

Questa situazione non può cambiare se non cambia nettamente l’impostazione del sistema giustizia, secondo tre grandi divisioni e secondo un principio di maggior certezza del diritto.

 

  • Divisione o classificazione dei cittadini.

Ogni cittadino nasce incensurato, e come tale ha diritto al massimo rispetto da parte dello Stato.

Deve essere reputato innocente fino alla condanna definitiva, ma prima ancora, ha diritto all’assoluto rispetto della sua riservatezza in casa sua, nei suoi rapporti privati, con i suoi familiari ed amici intimi; riservatezza, di livello inferiore, ma sempre inviolabile se non in casi gravissimi e motivati,  che si spinge alla tutela dei sui affari e della gestione dei suoi beni; la sua parola deve essere creduta vera fino a prova contraria; deve essere trattato dagli organi dello Stato su un piano di assoluta parità, senza possibilità di intimazioni o divieti, che non servano a preservare immediati diritti altrui.

Ma con il suo comportamento, egli può man mano perdere questi diritti e vederseli diminuire, per sua colpa ed unicamente per sua colpa. Questo principio permette di graduare la severità della legge in funzione del comportamento del cittadino stesso, garantendosi all’incensurato ogni genere di vantaggio e di sicurezza, mentre con il delinquente incallito si può applicare tutta la severità della legge.

Penso ad un casellario giudiziario diviso non solamente in incensurati e pregiudicati, ma ad almeno cinque livelli: incensurati, pregiudicati, delinquenti abituali; delinquenti organizzati; mafiosi.

Ogni categoria è assegnata al cittadino per sentenza, quindi a causa di un suo comportamento delittuoso, passando attraverso vari gradini, con percorsi definiti (cioè si viene definiti mafiosi dopo essere stati via via pregiudicati, delinquenti abituali ecc.). E’ possibile anche il cammino a rovescio, nei modi stabiliti dalla legge (ad es., si guadagna un gradino dopo cinque anni di buon comportamento).

Incensurato: è il livello del cittadino che non ha mai subito condanne, per lo meno della gravità per la quale viene ora inquisito o processato. Egli gode della massima fiducia presunta; non può essere incarcerato se non per gravissimi motivi concernenti l’incolumità di altre persone; non può essere intercettato se non per reati gravissimi; non può essere accusato in base a dichiarazioni rilasciate da persone pregiudicate o peggio. Alla prima condanna, non va in carcere se non per

reati della massima gravità, ma usufruisce di sospensione della pena od arresti domiciliari.

Pregiudicato: è il cittadino che ha subito almeno una condanna (dovrebbero esserci almeno 3 livelli di pregiudicato: per reati contravvenivi, per reati contro le cose od il patrimonio; per reati contro le persone (o lo Spirito), in funzione della gravità del reato commesso; l’essere pregiudicato vale solo nei riguardi dei reti di pari od inferiore livello di quello per cui si è pregiudicati).

Delinquente abituale: è quello che ha subito almeno tre condanne (oppure colui che vive del delinquere).

Delinquente organizzato: è quello che agisce all’interno di una organizzazione a delinquere.

Mafioso: è il criminale che utilizza la paura indotta in modo permanente nei cittadini per assicurarsi vantaggi ed impunità.

In funzione del livello conquistato col suo malaffare, il cittadino pregiudicato nei vari gradi godrà di minori diritti di garanzia e verrà condannato a pene più elevate.

 

  • Divisione o classificazione dei reati.

Una prima, grande classificazione dei reati è quella già identificata da Aristotele, che divide i reati in naturali e legali.

Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo o che sia in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito.

Aristotele, Etica Nicomachea, V, 7.

 

I reati puramente legali sono generalmente quelli che concernono il buon funzionamento dello Stato, o quelli relativi a leggi di carattere ideologico, cioè quelle che vogliono imporre un determinato comportamento alla società, benché una congrua parte della stessa non condivida le idee al proposito di chi governa. Caratteristica di tali reati è il fatto che in altri Paesi o in altri tempi nello stesso Paese, questi non sono od erano considerati reati.

I reati naturali sono invece quelli che corrispondono a comportamenti che ledano ingiustificatamente ed ingiustamente un diritto altrui: fare male direttamente, senza giustificato motivo, al proprio prossimo è considerato male e reato in ogni Paese ed in ogni tempo. Anche in quelle società selvagge, dove è considerato onorevole uccidere il nemico, permane il senso del male se la violenza va verso i membri della stessa tribù.

La differenza tra i due tipi di reato può essere in taluni casi dubbia, ma mai tale da non potersi cogliere con un poco di meditazione: i reati stradali, ad esempio, potrebbero essere considerati solo reati legali, visto che una volta non esistevano. Ma quando un mio comportamento reca comunque danno ingiusto al mio prossimo sono di fronte ad un reato naturale: pertanto, parcheggiare in zona vietata è un reato legale, parcheggiare davanti ad un passo carrabile, in modo da impedirne l’accesso, è un reato naturale. Così è naturale il reato di guida pericolosa in qualsiasi modo, poiché mette a repentaglio vita e beni degli altri cittadini.

 

Io credo che non sia lecito togliere la Libertà per reati di tipo legale: infatti la Libertà dell’individuo è superiore all’interesse organizzativo dello Stato, poiché questo nasce proprio al servizio di quella.

Per tali reati, pertanto, dovrebbero essere previste solo pene contravventive, ovvero tali da provocare danni solamente al patrimonio ed alle cose del reo, non ai diritti inalienabili ed imprescrittibili della Persona.

Evidentemente a tale tipo di reato appartengono tutti i reati fiscali, e qui cozziamo contro una pretesa fortissima dello Stato e delle classi politiche di considerare il reato fiscale come quello più grave, e da perseguire più crudamente ed assiduamente: fa, infatti, mancare loro di ché sostentarsi sulle spalle dei cittadini, ed a tutto potranno rinunciare, salvo alle ricchezze ed ai privilegi di nei quali sono soliti crogiolarsi.

Qui da noi, ad esempio, non è più praticamente perseguito il reato di furto semplice, che danneggia solamente il cittadino e che i politici, da bravi cristiani, sono disposti perciò a perdonare (perdonare il male fatto agli altri è infatti una delle virtù precipue del politico): il ladro, le poche volte che viene preso, è subito scarcerato e può immediatamente tornare a rubare, senza alcun rischio. Ma un intero esercito dotato di ogni mezzo tecnico di intercettazione e monitoraggio si dedica alla caccia fiscale: non vi è diritto di riservatezza (privacy) o di proprietà che fermi lo spionaggio di Stato, e non vi sono limiti all’azione degli addetti.

Oramai i conti bancari sono conti aperti al diretto prelievo del fisco, e nulla viene perdonato al cittadino che lavora e produce, se cade nelle braccia dei torchiatori e dei tosatori.

La mandria dei cittadini lavoranti e produttivi è considerata una sicura fonte di reddito per la casta dominante, che considera i beni privati come beni propri, dei quali può disporre come vuole, con semplice decreto. I non lavoranti e gli improduttivi, sono, a loro volta, considerati fonte di voti e quindi di potere, da comprarsi con i soldi sottratti agli altri, meno furbi.

 

Per quanto riguarda, poi, i reati di natura ideologica, questi andrebbero semplicemente aboliti, in quanto non dovrebbe essere considerato lecito ad uno Stato obbligare i cittadini ad un comportamento, o a proibirne uno, se non per difendere i diritti immediati degli altri, e non per realizzare i sogni utopici dei governanti. Il governo che vuole procedere in tale senso, dovrebbe usare solamente il metodo di rendere conveniente il comportamento desiderato, o non conveniente quello contrario, usando solamente incentivi o disincentivi, mai obblighi e proibizioni sorretti dalla minaccia di una pena.

 

Passiamo ora a considerare i reti naturali: truffe, furti, violenze, inganni ecc. (dal V a X Comandamento). Anche qui possiamo individuare due grandi famiglie di reato: i reati occasionali ed i reati delinquenziali.

Con reato occasionale definiamo quei reati, anche gravissimi, che possono essere compiuti da una persona normalmente onesta, in particolari circostanze di provocazione o di alterazione psicologica (tra cui la tentazione troppo forte, casualmente generatasi).

Delinquenziali sono invece quei reati che possono venir commessi solamente da chi ha, in modo permanente, abbracciato la via del delinquere.

Non è quindi la gravità del reato a distinguere il genere, ma la tipologia psicologica di chi lo compie: uccidere la moglie per gelosia è un reato occasionale, rubare nelle automobili rompendo il vetro è un tipico reato delinquenziale; cogliere ciliegie dalla pianta del vicino per mangiarle è reato occasionale, per venderle è (se fatto in modo organizzato) delinquenziale.

 

Risultano quindi tre grandi famiglie di reato: quelli solo legali (contravventivi), quelli (naturali) occasionali, e quelli (naturali) delinquenziali.

 

 

  • Suddivisione in livelli per gravità reati.

All’interno di ogni famiglia di reato vanno identificati un certo numero di livelli da cinque a dieci, identificanti la gravità del reato: ad ogni livello corrisponde una quantificazione della pena definita per legge. Per i reati contravventivi la gravità è data generalmente dal danno provocato, mentre per i reati penali (naturali) propongo tre grandi classificazioni, a loro volta divise in tre livelli ciascuna. Partendo dai reati più lievi, si hanno: reati contro il patrimonio, reati contro la persona, reati contro lo Spirito. Reati contro il patrimonio sono quelli che provocano solo un danno materiale quantificabile per valore; contro la persona sono i reati che danneggiano corpo o psiche della persona, escluso l’omicidio; contro lo Spirito sono i reati che colpiscono i Diritti naturali e fondamentali (tra cui vita, libertà e dignità) della persona, ma anche i reati contro le massime manifestazioni dello Spirito: cultura, arte, religione.

Questi ultimi reati sono oggi equiparati ai reati contro le cose, e puniti in modo insensatamente blando: alcuni anni fa, il martellatore della Pietà di Michelangelo fu condannato pressappoco alla pena che avrebbe avuto imbrattando un paracarro. Oggi è a tutti impedito visitare gran parte del patrimonio artistico nazionale, conservato nelle migliaia di chiese sparse per il territorio, una volta sempre aperte ed ora sempre chiuse, a causa dei ladri di oggetti d’arte, che vengono puniti come i ladri di biciclette.

Per ogni reato definito dalla legge, il legislatore dovrebbe indicare la famiglia ed il livello in cui questo ricade, perché la classificazione sia oggettiva e non lasciata alla fantasia del giudice.

 

  • Certezza del diritto

Poiché in fondo all’animo del legislatore si mantiene la convinzione che la pena serva a punire, egli si sforza di costruire un sistema il più giusto possibile, in cui la pena sia effettivamente commisurata alla colpa: per far ciò, ogni reato viene punito con pene variabili in modo larghissimo (es. da due a dieci anni), lasciando al giudice il compito di individuare la gravità della colpa, le circostanze attenuanti ed aggravanti. In tal modo il giudice si sostituisce a Dio nel cercare di fare Giustizia. Compito impossibile all’uomo, perché nessuno può sondare fino in fondo l’animo di un altro uomo. In tal modo si realizza un sistema massimamente ingiusto, in cui la pena è determinata dall’abilità degli avvocati, dalla simpatia o antipatia che suscita l’imputato, dalla buona o cattiva digestione del giudice. Nessuno può sapere a priori la pena effettivamente conseguente ad un dato reato, condizione propria della certezza del diritto.

Per di più, i processi si allungano all’infinito, perché occorre indagare e sondare ogni minimo particolare, concernente non solo il reato, ma l’intera vita del colpevole e della vittima.

Qualche anno fa accadde che un povero barbone fu condannato due volte per lo stesso reato, da due corti diverse, nel giro di pochi giorni, per un errore della cancelleria. L’imputato non disse niente, fino a ché non si scoperse il fatto, e tutti gridarono allo scandalo. Nessuno però si scandalizzò del fatto che, come potei constatare leggendo i giornali, le due condanne, irrogate per lo stesso reato a pochi giorni di distanza, erano l’una il doppio dell’altra. La cosa mi confermò nell’opinione, che è pure quella di Cesare Beccaria, che i giudici dovrebbero solo constatare i fatti e definirli, e la pena deve scaturire automaticamente da questi, così come previsto dalla legge.

Con la soluzione proposta, questo è proprio quello che si dovrebbe ottenere: identificato il reato, il tipo ed il livello, la pena consegue automaticamente. Questa va poi corretta (aumentata o diminuita) in funzione del casellario giudiziario dell’imputato, definito in precedenza per sentenza.

Faccio un esempio di come dovrebbe presentarsi la matrice di definizione dei reati penali (naturali).

 

reati Contro il patrimonio Contro la persona Contro lo Spirito
1° liv. 2° liv. 3° liv. 1° liv. 2° liv. 3° liv. 1° liv. 2° liv. 3° liv.
Non delinquenziali 3 mesi 1 anno 3 anni 1 anno 3 anni 6 anni 5 anni 10 anni 20 anni
delinquenziali 1 anno 3 anni 10 anni 5 anni 10 anni 20 anni 10 anni 20 anni10 anni 30 anni

 

Le pene sono solo esemplificative e non particolarmente meditate.

Importante è che un reato sia chiaramente assegnato ad un dato livello: es. omicidio volontario: 1° livello contro lo Spirito; sfruttamento prostituzione:  1° livello contro lo Spirito; distruzione volontaria di opera d’arte: 3° livello contro lo Spirito; ecc.;

 

Le pene indicate potrebbero essere quelle spettanti al pregiudicato; per i delinquenti abituali, organizzati e per i mafiosi si applicano coefficienti di maggiorazione definiti dalla legge.

Per gli incensurati, al contrario, si applicano deduzioni o facilitazioni di trattamento (condizionale, carcerazione domiciliare o pene alternative) definite per legge in funzione della classificazione tabellare del reato.

Ad esempio, l’incensurato non sconta la pena per i reati non delinquenziali patrimoniali; arresti domiciliari per reati non delinquenziali contro la persona,  contro lo Spirito 1° livello e delinquenziali patrimoniali; carcere per il resto.

 

  • Vantaggi della soluzione proposta

La soluzione tabellare proposta offre un vasto numero di vantaggi e pressoché nessuno svantaggio, se non per chi ha interesse a far durare il più a lungo i processi ed a mantenere una sua propria onnipotenza sociale:

 

  • Possibilità di garantire le più grandi garanzie e trattamenti umani per gli incensurati, e permettere forme di indagine invasiva e pene durissime per delinquenti abituali o mafiosi, con un vasto spettro di differenziazione.
  • Certezza del diritto, poiché chiunque può capire a quale pena va incontro commettendo un dato reato.
  • Velocità dei processi, perché al giudice resta da accertare la qualifica dell’imputato, se ha o non commesso il fatto, la natura del reato: da questi fattori scaturisce automaticamente la pena.
  • Maggior giustizia: è infatti più giusto ricevere una pena conosciuta in partenza, che una assolutamente aleatoria e discrezionale.

 

 

 

La questione della pena di morte

Per finire questo capitolo sulla Giustizia, vorrei dedicare qualche riga alla questione, di recente tornata alla ribalta, della pena di morte.

Governando l’Italia quella sciagurata congerie di buoni a nulla, faziosi e corrotti formanti il secondo governo Prodi, che per reggersi ha avuto bisogno di comprarne il sostegno, superando ogni record nel numero di segretari e sottosegretari (oltre a quello delle segretarie particolari), l’Italia ha portato a casa un notevole successo diplomatico, che ha richiamato su di noi l’attenzione ammirata del mondo intero, assieme all’immondezzaio a cielo aperto della Campania, l’impossibilità per il Papa di muoversi liberamente per Roma, il Ministro di Giustizia inquisito e dimissionario e altri titoli di merito che illustrano l’Italia, come merita un Paese che vota per simili incompetenti: abbiamo ottenuto una dichiarazione dell’Assemblea generale dell’ONU per una moratoria (sospensione) della pena di morte nel mondo.

Poiché, comunque, la condanna della pena di morte ha accomunato destra e sinistra in un sostegno assolutamente acritico, vorrei spendere io due parole assolutamente controcorrente.

Non sono un appassionato di patiboli, non godrei a vedere anche il peggior delinquente appeso per la gola, così come non mi ha fatto piacere l’esecuzione di un boia come Saddam, ma ugualmente esprimo alcuni dubbi su questo valore che ha trovato tanti consensi.

 

Primo: esso non fa parte del nostro patrimonio di valori

Credo di aver dimostrato, ed in questo credo profondamente, che i valori che hanno fondato la nostra civiltà affondano le loro radici nella storia. L’Occidente ed i suoi valori non sono nati ieri, né cinquant’anni fa. Esso proviene dalla cultura greco-giudaica, riscritta dal pensiero cristiano, e che ha trovato nella fondazione degli Stati liberali la sua massima realizzazione da almeno duecento anni.  Come mai questo valore non è mai stato sostenuto, in modo generalizzato, se non al massimo da venti o trent’anni, e senza la partecipazione di paesi come gli Stati Uniti, dove le garanzie per l’individuo sono sicuramente maggiori che da noi?

Cinquant’anni fa la pena di morte c’era in quasi tutti i paesi europei, compresi Inghilterra e Francia. Ancor oggi, o fino a pochissimo fa, era prevista nei codici penali del Vaticano.

La sua abolizione non ha mai fatto parte del bagaglio culturale né laico né religioso dell’Europa, e tanto meno degli altri Paesi del mondo.

E’ vero che il Beccaria avversa la pena di morte, ma ho trovato due passi di Montesquieu, da lui tanto ammirato, che invece la giustifica: l’opinione era quindi contrastata.

La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione;… io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, § XXVIII.

 

Il motivo per cui la morte di un criminale è cosa lecita, è che la legge che lo punisce era stata fatta in suo favore. Un assassino, per esempio, ha goduto della legge che lo condanna; essa gli ha conservato la vita tutti i momenti, quindi egli non può reclamare contro di essa.

Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, Lib. XV, cap. II.

 

Un cittadino merita la morte quando ha violato la sicurezza [altrui] al punto di aver tolto la vita, o tentato di toglierla. Questa pena è come il rimedio della società malata.Quando si viola la sicurezza dei beni, possono esserci delle ragioni perché la pena sia capitale; ma varrebbe forse meglio, e sarebbe più naturale, che la pena dei reati contro la sicurezza dei beni fosse punita con la perdita dei beni…

Ibidem, Lib. XII, cap. IV.

 

Vediamo che anche per il Beccaria vi sono due motivi che renderebbero giusta la pena di morte, anche se egli sostiene che il primo non si verifica se lo Stato è ben organizzato, mentre il secondo non è necessario, perché ad intimidire i possibili colpevoli bastano le pene ordinarie.

D’altro canto, proprio gli Illuministi, una volta andati al potere, dimenticarono ogni loro avversione per la pena di morte, e si diedero al taglio delle teste degli avversari e, terminati quelli, anche delle proprie.

 

Secondo: il dovere primo di uno Stato è difendere il cittadino

Il primo dovere dello Stato è di garantire la Libertà dei suoi cittadini, fino alle estreme conseguenze, se queste si rivelano necessarie (guerra o pena di morte).  In uno Stato come l’Italia, dove intere regioni sono in balia della delinquenza, che applica la pena di morte contro coloro che non le si assoggettano e che pretende il pagamento di tributi dalle normali attività economiche, non sembra che l’importunare altri Stati perché concedano misericordia ai loro criminali debba essere una priorità etica di particolare valore.

 

Le due condizioni poste dal Beccaria perché la pena di morte si consideri giusta, potrebbero essere verificate proprio in Italia, nelle regioni dove imperversano Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta.

  • i criminali, anche incarcerati, costituiscono pericolo per la società, poiché continuano a delinquere anche dal carcere, talora giungendo all’omicidio dei carcerieri o dei poliziotti che li hanno catturati (anche se ora è più proficuo accusarli come pentiti).
  • la minaccia costituita dal pericolo di morte portato contro il cittadino da Mafia o Camorra può essere bilanciata solo da un’altrettanto grave minaccia contro i criminali stessi.

 

Personalmente, infatti, non credo all’utilità della pena di morte contro i delitti, anche terribili, perpetrati nei normali rapporti civili, poiché questi sono originati da motivazioni per lo più irrazionali ed emotive non particolarmente influenzabili dal timore delle conseguenze.

E’ invece indubitabile che questa pena è terribilmente efficace contro i delitti delinquenziali premeditati, dove il rischio della morte viene valutato freddamente dal delinquente.

La pena di morte in Inghilterra contro chi uccideva un poliziotto permetteva alla polizia di quel Paese di lavorare disarmata.

Sono perciò contrario alla pena di morte per i delitti per i quali più comunemente viene applicata, quelli che emozionano le giurie, mentre non la credo inutile per la lotta alla delinquenza di tipo mafioso (quella cioè che fonda il suo potere sulla paura indotta nei cittadini).

 

Terzo: l’abolizione per la pena di morte non è dovuta ad un particolare rispetto per la vita

L’unico motivo valido per abolire la pena di morte è un particolare e acuito senso di rispetto per la vita umana, considerata così sacra da non poterla togliere neppure al delinquente. Ma poiché gli stessi contrari ad uccidere i criminali condannati, sono altresì favorevoli a sopprimere la vita umana nelle forme di feto, nel ventre delle madri, di embrione, nelle provette dei laboratori-macelleria, o nel letto di malattia per gli incapaci di intendere e di volere, “la cui vita non è degna di essere vissuta”, non sembra che questo sia il motivo di tanta passione.

Chi ha veramente rispetto per la vita umana, non può essere indifferente alla domanda su quando questa ha inizio, e adottare soluzioni assolutamente arbitrarie che mostrano l’effettiva indifferenza verso quei valori (i diritti umani) che dovrebbero credersi innati e imprescrittibili, e quindi non concessi dalla legge, ma solo dalla natura stessa dell’uomo.

 

La pena di morte era eseguita, un tempo, contro gli assassini, perché sembrava che un delitto così grande come il togliere la vita non potesse essere punito altrimenti che con una simile pena.

L’ergastolo, al posto della morte, significava che chi aveva ucciso non poteva più tornare tra i propri simili, che non potevano essere costretti a trovarsi assieme a chi aveva compiuto un atto così scellerato (scelus, la parola latina, indica un atto sacrilego)

Al contrario, in questo clima perdonista (perdonismo: quando il perdono riguarda sempre e solo le offese rese agli altri), l’abolizione della pena sembra un rilassamento del senso di condanna per il delitto commesso, come se si dicesse: hai ucciso, ma per così poco non val la pena di sporcarsi le mani. Ed è questo ciò che percepisce la delinquenza. Per di più, abolita la pena di morte, si abolisce, già ora in pratica, poi anche legalmente, anche l’ergastolo, così che il normale cittadino può trovarsi, suo malgrado, fianco a fianco con assassini rimessi in libertà: in tale situazione l’assassinio torna ad essere, come nei tempi antichi, una mancanza lieve, perdonabile da parte della società, in particolare se non coinvolta col delitto.

 

Per questo non reputo che la battaglia condotta in favore della moratoria rappresenti veramente un valore degno di essere condiviso, e sia stata solamente occasione di posizione demagogiche non meditate, motivate nella maggior parte dei casi dal timore di trovarsi a difendere posizioni scomode ed attaccabili come retrive o reazionarie.

(indietro)                                                                                                                                        (segue)